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sabato 30 maggio 2009

Into My Plastic Bones - Words I Do Not Say (2006)




Anno: 2006

Ettichetta: autoprodotto

Tracklist:
01 Screwed Finger 5:23
02 A Seagull Stole My Vodka Lemon 2:53
03 Bleeding Beauty 4:48
04 Dichotomy 6:27
05 Oil On Canvas 12:20
Un carillon impazzito, che ripete lo stesso giro cacofonico ma da cui si intravede una certa attitudine alla melodia. Un vinile graffiato, in cui la puntina ricade sempre negli stessi solchi, ripetendo incessantemente una traccia sonora, mentre echi lontani a tratti spaziali, a tratti psichedelici, irrompono in una marasma di sperimentale destrutturazione del suono. Parrebbe un disco di noise, invece è "Oil on canvas", brano di 12 minuti in cui rifuggono le varie sfaccettature del suono, nelle sue dimenzioni più sgraziate, ma che hanno appassionato i veri amanti del rock. La distorsione, il feedback, la ricerca degli effetti da Stockhausen fino a giungere ai lidi più icnandescenti del post-core e del noise. Tuttavia gli Into My Plastic Bones si presentano come brand crossover-sperimentale, sebbene le categorie sono relative e utili solo per avere delle coordinate iniziali. Il sound è complesso, sporco, ruvido e corposo, trio proveniente da Torino che nel 2008 muterà pelle e pubblicherà il suo secondo lavoro (entrambi in download gratuito sul loro sito). Dobbiamo dare un'interpretazione estesa del termine crossover, non limitandoci alla scuola tipica di Primus, Red Hot o Faith No More ma andando a cogliere il concetto da un punto di vista simbolico: lo scavalcare i genere verso la totale volontà di creare qualcosa ben oltre le barriere diarietiche. E qui c'è tutto, pur essendo un disco con pochi brani e strumentali. Impressionante la carica math che trasuda con forti citazioni di due band in particolare, Don Caballero e Irepress. Ma anche hardcore raffinato e bordate che si stagliano tra il progressive ed incedere crossoveristico e noise-jazz-core. Ci verrebbe automatico citare i classici esponenti del genere, ed è indubbio che la mentalità di questi ragazzi sia caratterizzata da un'instacabile desiderio di coniugare una spasmodica ricerca del sound godibile ed orecchiabile ( Bleeding beauty ne è l'esempio più palese), con la scelta di percorsi tortuosi e accattivanti, nella più pura follia sperimentale. Pluralismo sonoro, che alterna fasi più atmosferiche (vicine anche alle nuove correnti post-qualche cosa), ad altre più dure e massicce, che rimandano anche a Melvins, Tool ed Helmet. Un gran bell'ep, una band che potrebbe esplodere e diventar eun punto di riferimento. Naturalmente consiglio di sentirli e di procurarsi anche il nuovo episodio. Ne vedrete delle belle.

IMPB - Myspace

Download gratuito del disco.



Sgabrioz.

giovedì 28 maggio 2009

Antony And The Johnsons - The Crying Light (2009)




Anno: 2009

Etichetta:
Secretly Canadian

Tracklist:
1. "Her Eyes Are Underneath the Ground" (Antony & Nick Hegarty) – 4:24
2. "Epilepsy Is Dancing" – 2:42
3. "One Dove" (Antony & Barry Reynolds) – 5:34
4. "Kiss My Name" – 2:48
5. "The Crying Light" – 3:18
6. "Another World" – 4:00
7. "Daylight and the Sun" – 6:21
8. "Aeon" – 4:35
9. "Dust and Water" – 2:50
10. "Everglade" – 2:58

Sarebbe ridondante iniziare a riportare tutte le citazioni, di critica e "colleghi", riguardo al progetto Antony And The Johnsons ed il suo leader, Antony Hegarty. Le attestazioni di stima si susseguono con sempre maggiore frequenza, a partire dalla sua comparsa nel mondo della musica agli inizi del XXI secolo. Pupillo di Lou Reed e David Tibert (Current93), il ragazzone inglese classe '71 ormai è acclamato come portavoce ed icona della comunità gay, titolo di cui si presume vada fiero e ne sia soddisfatto. Ma ciò non dev'essere necessariamente sinonimo e sintomo di eccessi iconografici ed "estreme manifestazioni" che potrebbero sfociare nell'irriverenza, seppure esteticamente nobile e dignitosa, del burlesque e della parodia del gay a la Rocky Horror Picture Show. Lo stesso Boy George, a cui Antony ha dedicato una canzone in cui lo appella come sorella maggiore, ha sottolineato la grandezza di questo astro nascente del pop sofisticato ed elegante. Diamanda Galas, per fare un nome a caso, ha elogiato apertamente la voce immensa del trentenne proveniente dal Sussex. Credo che si sentisse veramente la mancanza di un disco di questa potenza lirica, da tempo non capitava di sentire una voce nuova che fosse allo stesso tempo così "classica" e tuttavia capace di cogliere sfumature adeguate ai tempi. Tutto in questo disco è praticamente perfetto, a partire dall'immagine rappresentata sulla cover frontale del disco. Un'istantanea che si divide tra una parvenza di sacralità del teatro giapponese, con un sentimento di decadenza barocca come a significare che il bello è destinato a cedere il passo all'inserobile scorrere del tempo. Ma nel disco c'è molto di più, in primis un approccio che travalica i generi e le situazioni, spingedosi a cantare della società umana. Cogliendola in trasversale ed attraversandola da capo a fondo, si interessa solo di piccoli momenti e aspetti che, seppure secondari, in realtà sono preziosi e significativi. Gli strumenti adottati sono il bel canto e degli arrangiamenti di eccellente spessore, che dipingono impressioni su tele candide. Le doti vocali spaziano dal tenorile al pop anni '80 alla costante ricerca di sfumature e virtuosismi canori, tra il rhtym n' blues di classe e l'eleganza della lirica classica. Senza perdere di vista la melodia ed il songwriting godibile e orecchiabile, The Crying Light offre momenti di travolgente passione ed emotività, pronta a toccarti dentro e travolgerti. Incantevole e seducente, vi troverete piacevolemente "turbati" dalla convinzione e forza con cui Antony canta e descrive momenti di pura teatralità. Uno dei possibili dischi del 2009, ma di cui si sentirà parlare. Sgabrioz

mercoledì 27 maggio 2009

Paolo Nutini - These Streets (2006)




Anno:
2006

Etichetta: Atlanctic Records

Line-up:
Donny Little - guitars/vocals
Paolo Nutini - vocals/guitars
Seamus Simon - drums
Michael McDaid - bass/keys
Dave Nelson - guitar/vocals/keys/percussion
Gavin Fitzjohn - huffy puffy blowey type things

Tracklist:
Jenny Don't Be Hasty
Last Request
Rewind
Million Faces
These Streeys
New Shoes
White Lies
Loving You
Autumn
Alloway Grove

Il Soul e il Blues, la musica nera. Musica che ha segnato intere generazione di colored americani, riuniti sotto gli stessi ideali di rivalsa sociale, e finalmente identificati attraverso un genere che unisce composizioni di rara espressività, non basate su complesse architetture sonore (come invece capita dall'altra parte dell'Oceano) ma sul semplice uso della voce, unico vero strumento di comunicazione. Il Soul non è solo anni '50, però: si diffonde rapidamente anche in Europa, ed è ancora oggi suonato in locali bui e fumosi, in Gran Bretagna e non solo. E' questo il caso del nostro Paolo Nutini, di chiare origini italiane ma nato in Scozia, da una famiglia non certo ricca e con qualche problema economico. Cresce con il Soul, ed impara presto a suonare la chitarra. Se aggiungiamo il fatto che il ragazzo ha anche una voce da non sottovalutare (è stato accostato a diversi nomi importanti della scena), di qui ad iniziare a scrivere qualche canzone propria, assolutamente senza pretese, il passo è breve. Il fatto è che Paolo è bravo, molto bravo. Non solo: è anche un bel ragazzo, un diciottenne che può fare breccia nel cuore delle teenagers di tutto il mondo; così, gli viene proposto il suo primo contratto discografico, che ovviamente accetta senza pensarci su due volte. Qualche piccolo ritocco da parte del produttore, e il gioco è fatto: ecco nascere These Streets. Da questo momento in poi, la sua vita si divide fra i palchi dei più importanti programmi “musicali” (se si può definire un programma musicale Top Of The Pops) mondiali. La prima cosa che uno potrebbe pensare è: il ragazzo ha davvero delle qualità, o è un altro successo costruito a tavolino? Io propenderei per la prima. Paolo Nutini ha innanzitutto un certo gusto musicale: le canzoni sono tutte molto semplici, ma ci sono delle trovate davvero notevoli (come, ad esempio, il contagioso ritmo groovy di New Shoes); ma, cosa importante, ha una voce stupenda, come non si sentiva da diverso tempo: maschia, strepitosamente sexy, espressiva. Chi lo ha visto live, ha sicuramente potuto apprezzarla in tutta la sua eccezionale bellezza. Il disco è più che piacevole. Certo, niente di nuovo sotto il sole, altrimenti avremmo gridato al miracolo. E' certo che due hits sicure come Jenny Don't Be Hasty e Last Request non possono che raggiungere il successo che meritano, e due lenti come Rewind e Autumn (questo in particolare molto struggente) non possono che entrare con prepotenza negli iPod di tutte le ragazzine europee (e forse anche americane). E' tutto azzeccato alla perfezione, tutto molto piacevole all'ascolto. E non mancano anche pezzi di notevole fattura: la title-track è probabilmente il picco dell'intero album, con la voce di Paolo supportata da una sola chitarra acustica, e New Shoes sembra un invito a ballare, con il suo ritmo estremamente contagioso. Una volta ascoltato tutto il disco è impossibile smettere di canticchiare. Siamo consapevoli di aver ascoltato dell'ottima musica, e di aver scoperto un nuovo talento. Da seguire.

Sito Ufficiale
Myspace
AlphaDj

lunedì 25 maggio 2009

Daylight Seven Times - Blood Coloured Sky (2006)



Anno: 2006

Etichetta: Circle Pit


Tracklist:
1. Hard Times

2. Revelation
3. Solaris

4. That Time Is Now

5. Lost

6. Gravity

7. Autumn '99

8. The Myth Of The Cave

9. Endless 10. Lucky


Dati i numerosi apprezzamenti ricevuti dal brano Solaris, presente sulla compilation di Rock&Dintorni, ho deciso di scrivere due righe riguardo a Blood Coloured Skies. Innanzitutto: se cercate il gruppo del secolo capace di rivoluzionare per sempre la musica rock con qualcosa di mai sentito state lontani da questi tre (ora quattro) ragazzacci. Se invece quando vi accingete all'ascolto di un qualsiasi album desiderate trovarvi sincerità, stile e freschezza che sprizza da ogni singola nota, questo è il full-lenght che stavate cercando!
I D7T non propongono nulla di mai sentito: partono da una matrice HC anni 90 (No Use For A Name, NOFX) riattualizzandola incorporando influenze emo (di quelli sani) e alternative rock (Juliana Theory, The Get Up Kids), tirando fuori un suono completamente personale e genuino.
Le capacità tecniche del gruppo sono ottime. Edoardo (voce, chitarra) ha una voce che non può lasciare indifferenti per via dell'espressività ed emotività che la caratterizza, allo stesso modo i suoi riff di chitarra. Sergio scava linee di basso che danno profondità al suono complessivo, ma il vero collante che rende tutto più omogeneo è la batteria di Dario (ex-Sottopressione :yeah: ): sempre varia e che riesce a rendere le canzoni energiche e spigliate. A tutto ciò aggiungiamo dei testi sempre di ottimo livello (cosa per niente scontata a livello italiano) e ci troviamo così di fronte ad un prodotto che non ha nulla da invidiare ai gruppi americani e che potrebbe tranquillamente stare nel catalogo della Vagrant o della Drive Thru.
La prima metà di Blood Coloured Skies si attesta su livelli davvero molto alti. La tripletta d'apertura lascia sbalorditi: Hard Times, Revelation (splendido l'intro di pianoforte) e la conosciuta Solaris sono canzoni di un livello decisamente superiore alla media. Si prosegue con Lost e That Time Is Now che rivelano l'anima più pop del gruppo passando per Gravity (dotata di un testo splendido:and all my fears just fade away as I look in your eyes and they're filled with hope), la traccia più legata all'hardcore, e alla semi-ballad Autumn '99. Ci troviamo poi di fronte a The Myth Of Th Cave dov'è la batteria di Dario a farla da padrone e subito dopo a Endless, brano con una grandissima coda strumentale. Finiamo in bellezza con Lucky che rialza il livello dell'opera a quello della prima parte.
Per concludere posso solo consigliarvi di ascoltare quest'album, perchè i Daylight Seven Times hanno classe da vendere e se avranno la fortuna di trovare gente dispostata a supportarli anche dall'altra parte dell'Oceano (dato che nell'Europa centrale e in Giappone sono già apprezzati) potrebbero davvero sfondare. Speriamo bene!

Sounds Like: The Get Up Kids, No Use For A Name, Juliana Theory


Alessandro Sacchi

domenica 24 maggio 2009

East Rodeo - Dear Violence (2009)






Anno: 2009


Etichetta: KapaRecords/Trovarobato/ Publishing:A Buzz Supreme


Line-up:
Nenad Sinkauz: guitar/vocal (Croatia)
Alfonso Santimone: keyboards, live electronics,noises (Italy)
Alen Sinkauz: bass,loops (Croatia)
Federico Scettri: drums (Italy)



Tracklist:
1. Soldato NATO
2. Transiraniana
3. Same Step

4. Clown
5. Medezhija

6. Ultima Volta che il Pesce Abbocca

7. Puž

. For My Mouse

Data di uscita italiana: 1 giugno 2009




Dopo un interessantissimo lavoro di esordio intitolato Kolo e i complimenti ricevuti, tra gli altri, da Marc Ribot e Greg Cohen, gli East Rodeo - gruppo multietnico formatosi a Padova nel 2002 - tornano con un nuovo lavoro intitolato Dear Violence che si propone tra le uscite più interessanti del mercato discografico italiano del 2009.
L'attuale formazione è composta dalle menti storiche del gruppo, i croati Alen (basso) e Nenad Sinkauz (voce e chitarra), e dai due italiani Alfonso Santimone (tastiere) e Federico Scettri (batteria), per la prima volta nella band.
Il titolo vagamente ossimorico e l'impatto raffigurato nel dipinto in copertina preannunciano i continui incontri/scontri tra silenzio e rumore, tra jazz e rock, tra psichedelia e ritmiche forsennate che si attuano nello spazio delle 8 tracce che compongono il disco, splendidamente mixato dall'onnipresente - quando si tratta di musica italiana di qualità - Giulio Ragno Favero (Zu, Il Teatro degli Orrori, One Dimensional Man, Putiferio).
Rispetto al precedente "Kolo", nel nuovo lavoro si percepisce una maggiore ricerca della tensione: il gruppo sembra giocare ad ipnotizzare l'ascoltatore con suoni insinuanti e persuasivi, per poi stordirlo con riff acidi ai limiti del noise. Un contrasto questo che è chiaramente esemplificato in "Soldato NATO" dove passaggi cupi che ricordano i Fantômas più "ambient" si alternano con esplosioni noise/math vagamente somiglianti a quelle dei siciliani Uzeda.
In "Transiraniana" la ritmica simil-math di Federico, il basso pulsante di Alen e i sibili volutamente ripetitivi della chitarra di Nenad creano una trama fitta ed ipnotizzante dal quale è impossibile districarsi rimanendo indifferenti.
Il grande lavoro di mixing effettuato da Giulio Favero è chiaramente riscontrabile in "Clown", pezzo da ascoltare al massimo volume proprio per rendersi conto della qualità sonora del disco; un aspetto, questo, da non trascurare.
In "Medezhija" ritmiche e testi di chiara matrice balcanica si fondono con un folle trash jazz di Zorniana memoria, mentre schizofrenia e sperimentazione elettronica la fanno da padrone nella sorprendente "Ultima volta che il pesce abbocca".
C'è spazio anche per sprazzi di momenti delicati e sognanti, come accade nella prima parte di "Puž" o nella conclusiva "For My Mouse", dove rispettivamente pare quasi di ascoltare la fusione trip hop dei Massive Attack e il post rock sognante dei Karate.
Badate bene che i diversi gruppi citati nel testo sono soltanto sensazioni di chi scrive e solo alcuni di questi sono anche ispirazioni reali e dichiarate dal gruppo. Quello che troverete in "Dear Violence" è in realtà un melting pot riuscito, coeso e soprattutto originale, frutto di una precisa identità sonora di un gruppo realmente unico, non solo in Italia.

http://www.eastrodeo.net/
http://www.myspace.com/eastrodeo


Mr. Bungle82.