Creative Commons License
Rock e Dintorni by Rock e Dintorni is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: 17/05/09

sabato 23 maggio 2009

Vanessa Van Basten - La Stanza di Swedenborg (2006)




Anno: 2006

Etichetta: Eibon / Coldcurrent / Noisecult / Radiotarab

Line-up:
Morgan Bellini: guitars, synth, sampler, sequencer, mic, software, fx, harmonica, glockenspiel, percussions
Stefano Parodi: bass, synth

Tracklist:
1. La stanza di Swedenborg
2. Love
3. Dole
4. Giornada de Oro
5. Il faro
6. Floaters
7. Vanja
8. Good Morning Vanessa Van Basten

"Mi chiami pure se ha bisogno... o se ha paura". -"Cara ragazza, io non ho paura. Ho già assistito dei moribondi: la mandibola scende un pochino e poi è finita, il più delle volte non succede nient'altro". -"Tutti gli spiriti si trovano in una stanza intermedia, che noi chiamiamo 'la stanza di Swedenborg'. Ma lei non ci resterà a lungo, lei passerà dall'altra parte, verso la luce, ma deve cercare di restare là almeno qualche minuto. Qualcuno la chiamerà da dentro la luce, forse si sentirà afferrare, ma lei cerchi di resistere e di non muoversi da là. E ora mi risponda: un colpo vuol dire no, due non lo so e tre colpi vogliono dire sì". -"Non vada in direzione della luce. Non lasci la stanza di Swedenborg." Sono parole che citano The Kingdom di Von Trier, perfette per inoltrarsi nell’universo dei Vanessa Van Basten. Un monicker curioso, alla luce di quello dei francesi Overmars. Non è un nuovo amore verso il calcio olandese, ma una vena oscuro/parodistica che caratterizza queste band. I Vanessa Van Basten però sono italiani, e di questo, dobbiamo andarne orgogliosi, perché dopo l’ep omonimo, ci si aspettavano grandi cose dal duo genovese composto da Morgan Bellini e Stefano Parodi. E l’attesa non è stata vana, anzi, ripagata nel migliore dei modi, con uno dei debut più belli della musica italiana degli ultimi dieci anni, e non occorre fare distinzione di genere, poiché un album come La Stanza Di Swedenborg può piacere a una gamma eterogenea di ascoltari, poiché intriso di un alone quasi magico, caldo, sempre coinvolgente, nonostante le tinte cupe, poiché emerge l’amore per la musica, sentimento puro, che ha portato la band ad amalgamare suoni sì distanti l’uno con l’altro, ma riuscendo a scovare il filo rosso capace di unirli ed elevandoli a uno status omogeneo e superiore. Loro stessi amano definirsi heavy post-rock, e chi siamo noi per contraddire questa affermazione? La tiltetrack si apre magniloquente ed eterea dove chitarre pesanti figlie del genio di Justin Broadrik si stagliano all’orizzonte, prediligendo il versante Jesu dell’artista britannico, ma non disdegnando excursus potenti nel passato dei Godflesh. Il tutto ricamato a dovere da chitarre acustiche di sottofondo, che avanzano di pari passo a loop sintetici ed evocativi, come i solenni rintocchi della drum machine che accompagna il tutto. E il finale esplode in un calideoscopio di suoni che è un tutt’uno con i quaranta secondi acustici di Love, piccolo anfratto sicuro prima della cangiante Dole. E ora emerge davvero l’amore verso il nuovo corso dei Jesu, melodia e compatta potenza, senza mai alzare eccessivamente i toni, scandendo il tempo con riff taglienti e gioeilli elettronici, mentre soffocate voci si odono in lontana, e non è eresia sentire nel mood della song un parallelo con gli ultimi Katatonia, decadenti e bellissimi, ma rinnovati nel sound, menrte la luce si spegne sulla song, trainata da delicati momenti che sanno di Grails. E nei secondi finali viene ripreso il tema iniziale, chiudendo in bellezza questo maestoso quadro musicale. Un quadro musical lieve come la brezza che soffia sulla costa e porta via lentamente le nuvole, soffusi arpeggi di chitarra memori della musica folk aprono le danze per Giornata De Oro, e mai titolo fu più azzeccato, visto il carattere solare e rilassato del componimento, onesto nelle sue pase e nei suoi campionamenti, mentre i riff si inchinano rispettosi, e mostrano il loro lato più dolce, per non rovinare la pace creata, e allora si inseguono, con gli arpeggi acustici, giocano e si divertono, come bimbi su verdi colline. Mentre tappeti di keys annunciano che il sole tramonta, ed è ora di rincasare. Il Faro è ancora più silente, un piccolo spazio dove raccogliere i pensieri, alla sera, ammirando il mare, citando i Pink Floyd e i figli Labradford; keys che disegnano i bordi e chitarre acustiche che vanno a riempire in maniera delicata gli spazi, in maniera ordinata. Ricordano forse, quello della loro Genova. L’incedere evocativo di Floaters è evocativo e disteso, come se l’album avesse definitivamente cambiato veste, e la potenza dell’inizio fosse solo uno scherzo di classe, e sussurri lontani si mischiano a riff solari, che paiono volare sopra le nuvole, ancora più su fino a brillare della luce del sole, non ci sono parole per descrivere la bellezza di questa canzone, e anche alla fine, quando i ritmi si alzano, non si può evitare di fare gli occhi dolci, e lasciarsi trasportare lontano. Un viaggio verso l’ignoto che le distorsioni di Vanja impreziosiscono, ma alienano la song dal proprio essere, succhiandone il midollo, riducendo il tutto a distorsioni dal sapore drone, ma pregne sempre di melodia. E il grido finale di Good Morning, Vanessa Van Basten, è liberatorio e intimo nonostante la sua strabordante carica di potenza, ma è una potenza controllata, mediata da sentimenti puri e solari, e scherzosamente fa finta di lasciarci, in qualche minuto di silenzio, ma poi torna, rinnovata, acustica, sussurrata, commovente. Si chiude così questo capolavoro moderno della musica italiana e non, e non possiamo far altro che attendere il seguito. Entrate anche voi nella Stanza Di Swedenborg.



Neuros

venerdì 22 maggio 2009

Open Hand - You and Me (2005)




Anno:
2005


Etichetta: Trustkill Records

Tracklist:
  1. "Pure Concentrated Evil" (Isham) – 1:34
  2. "Her Song" (Isham) – 3:12
  3. "Tough Girl" (Isham, Helmericks)– 2:54
  4. "You and Me" (Isham) – 4:10
  5. "Tough Guy" (Isham) – 3:07
  6. "Jaded" (Isham) – 1:59
  7. "The Ambush" (Isham) – 2:17
  8. "Take No Action" (Isham, Helmericks) – 2:03
  9. "Newspeak" (Isham) – 2:15
  10. "Crooked Crown" (Isham, Epley) – 3:32
  11. "The Kaleidoscope" (Isham) – 3:08
  12. "Waiting for Katy" (Isham, Arnovich) – 2:43
  13. "Trench Warfare" (Isham) – 3:41
  14. "Hard Night" (Isham) – 5:02
  15. "Elevator" (Bonus Track) (Isham) – 3:45
Line-up:
  • Justin Isham - guitar, vocals, production, engineering, mixing
  • Paxton Pryor - drums
  • Michael Anastasi - bass guitar
  • Sean Woods - guitar




Questo è uno dei primi lavori degli Open Hand, del 2005, che in passato era stato preceduto da un lp e da un ep. il gruppo era partito con un crossover solido imbevuto di emo e qualche tocco di garage... ma con "You and me" queste caratteristiche si ritirano, mentre affiora una matta voglia di Queens of the stone age e Fu Manchu. Si capisce tutto alla prima canzone: "Pure concentrated evil", un missile di un minuto e mezzo, sopra una ritmica incalzante ecco acidi riff e una voce che si rifà moltissimo ad Homme... mentre emerge lo stile di Rated R nella morbida e psichedelica "Her Song". i due singoli "Tought Girl" e "Tought Boy" sono le manifestazioni più emo del gruppo. personalmente preferisco (e di gran lunga) lo stile di canzoni come la fantastica "You and me", avvolgente, morbida nonostante gli strumenti siano grezzi e ruvidi (e il merito è del cantante-chitarrista Justin Isham), per non parlare di "Jaded" o della bellissima "The Abush", vero e proprio crossover desertico, per capire questa definizione bisogna ascoltarsi la canzone comunque, si vede un bellissimo incrocio fra i Deftones e i Qotsa. Le migliori prove sull' emo sono la ballata "Trench Warfare" e la dinamica "Crooked Crown". Purtroppo emergono anche alcuni difetti: molte canzoni mi fermano troppo presto (vedi l' armonia e l' ipnosi di "Newspeak"), così come non convincono certe attitudini emo o addirittura garage (la voce femminile di pezzi dall' anima hardcore "Tought Girl" e "Take no Action", che stona abbastanza con quella di Isham, mentre si fa accettabile in "Whaiting for Kathy"). Non rimane che concentrarsi sui pezzi più psichedelici già citati, a cui aggiungo "the Kaleidoscope" e "Hard Night", per non parlare della bonus track "Elevator", una delle migliori "ballate" del disco.
Tirando le somme non si può che essere soddisfatti da questo lavoro... Un ottimo intreccio di stili condito da belle armonie psichedelichecche si alternano a pezzi dal gran ritmo. Magari i puristi hard rock storcerando un po' il naso verso alcune parti un po' ruffiane ed emo, ma considerando la giovane età della band bisogna per forza guardare con ottimismo al futuro.



Seba.

giovedì 21 maggio 2009

Oak's Mary - Mathilda (2009)


Anno: 2009

Etichetta: Fox Records

Tracklist:
01. Mathilda
02. Two Colours
03. I live no more
04. Señorita
05. Anymore
06. Clap my Hands
07. A perfect day
08. Saturday night
09. I never found my way
10. Sexy girl
11. Inside my head


Line-up:
Pietro Seghini - voce, chitarra, hammond e piano.
Riccardo Cavicchia - chitarra e voce.
Marco Sarracino - basso, voce e Rhodes Electric Piano.
Marco Barbieri - batteria e percussioni.



Capita spesso di trovare dei dischi che siano destinati ad essere la colonna sonora di una evenzienza particolare. Accade talvolta - se siamo fortunati - che quel determinato album lo si ascolti in quel preciso momento che ne svela tutte le carte. Come se l'atmosfera ed il clima fossero capace di amplificare il piacere che si ha ascoltando il disco. Il nuovo lavoro degli Oak's Mary rientra in uno di questi casi, fortunato me che l'ho iniziato ad ascoltare seriamente proprio in questa metà di maggio caldo ed estivo. In pratica è un disco ESTIVO, vacanziero e pronto per le scorribande lungo i vostri road trips di luglio inoltrato. Il quartetto piacentino pubblica sotto la Fox Recordsil terzo full lenght, seguito di quel "Car Wash" che ha strappato ottime recensione sulla stampa nazionale ed estera. Mathilda riesce non solo a confermare le promesse, ma ad andare ben oltre, trasformando quella che sarebbe potuta essere una interessantissima proposta in una solida realtà. Quest'ultima frase mi ricorda lo spot dell'Immobiliar dream, ma tant'è. Undici brani che si snodano tra lo stoner rock desertico di queens of the stone age (quelli dei primi tre lavori, per intenderci) e lo stile caliente e rock di Brant Bjiork (Jalamanta, Chè, BB and the Bros), tanto per stimolare l'appetito. Quello che veramente risalta è la capacità compositiva: non c'è un riempitivo, un susseguirsi di ottime tracce al tempo stesso godibili e personali. Tra il rock n'roll di certi Eagles Of Death Metal ed il Desert degli earthlings?, passando per la psichedelia ed un'ottima dose di fuzz e wha-wha. E' difficile riuscire a trovare un brano che svetti sugli altri: potremmo apprezzare maggiormente la psichedelia di "clap my hands" o lo spirito scanzonato e festaiolo della Hommiana "two colour". Catchy ma senza rinunciare al rock, Mathilda si presenta in tutta la sua freschezza anche e soprattutto grazie alle capacità dei singoli musicisti. Nessun tentativo di sboroneggiare con la tecnica, ma solo desiderio di divertirsi, divertire e saper bilanciare riffs e melodia, ottime linee di basso e una batteria (Marco Barbieri) contropallatissima. Notevole anche l'uso incrociato delle voci (dal timbro "californiano") di Pietro Seghini e Riccardo Cavicchia e gli interessanti innesti del piano rhodes del bassista Marco Sarracino. Ottima sorpresa, Italiana, di una scena che ormai è un punto fermo. Welcome Mathilda!

Links:
www.oaksmary.com
www.garbagedumpeagency.com
myspace.com/oaksmary

Sgabrioz

mercoledì 20 maggio 2009

The Rolling Stones - Beggars Banquet (1968)





Anno:
1968

Etichetta:
Decca Records - ABKCO


Line - up


Mick Jagger - vocals, backing vocals, harmonica
Keith Richards - acoustic and electric guitar, bass, vocals
Brian Jones - acoustic slide guitar, backing vocals, sitar, tamboura, mellotron, harmonica
Charlie Watts - drums, percussion
Bill Wyman - bass, backing vocals, percussion

Track list

Sympathy for the Devil
No Expectations
Dear Doctor
Parachute Woman
Jigsaw Puzzle
Street Fighting Man
Prodigal Son
Stray Cat Blues
Factory Girl
Salt of the Earth


Dopo il tentativo (direi riuscito, anche se non pienamente) di staccarsi dai groppi beat dell'epoca con l'album Aftermath e la voglia di maturità artistica con l'album Their Satanic Majesties Request (non un brutto album, ma la psichedelica non fa per i loro, soprattutto in un periodo in cui questo genere stava definitivamente prendendo il volo) i Rolling Stones sono alla ricerca di una collocazione. Decidono di farlo con Beggars Banquet, desiderosi di ritornare sguaiati, irriverenti e stradaioli come qualche anno prima. Ripartono dalla strada. Paladini degli abitanti della strada, delle persone comuni. Per sedare un po' le varie anime della band viene assunto, come produttore, Jimmy Miller, che aveva già lavorato con i Traffic (tra l'altro, un membro dei Traffic è presente in questo album) e Spancer Davis Group. Tutto ciò, andò a scapito di Brian Jones, già caduto in una forte depressione a causa della ricerca di un ruolo preciso nella band, il tutto accentuato da droghe e abusi vari. Infatti il suo contributo all'album sarà minimo, o per lo meno non a livello degli album precedenti (morirà solo 7 mesi dopo l'uscita dell'album).
Già dalla copertina si evince la dimensione e l'abito del disco: un bagno sporco, dismesso e con le mura imbrattate a più non posso. Infatti la copertina fu censurata e fino al 1983 la cover fu un foglio bianco dove sopra fu stampato, con caratteri eleganti, il nome del gruppo e dell'album. In basso a sinistra fu stampata la parola R.S.V.P. Abbreviazione del francese, Répondez s'il vous plait.
Qualche riga sopra parlavo del desiderio dei Rolling Stones di ritornare sulle strade. Ecco infatti Sympathy for the Devil, vero manifesto satanico al ritmo di samba, nonché uno dei singoli più noti del gruppo. Basso pulsante, Jagger a recitare nelle vesti del diavolo (Proprio come se ogni poliziotto sia un criminale ed ogni peccatore un santo/Come capo e coda/Chiamatemi solo Lucifero/Perchè ho bisogno di un limite /Quindi se mi incontrate /Abbiate un po di gentilezza /un po di compassione /ed un pizzico di tatto /Usate tutta la vostra diplomazia ben assimilata /o porterò la vostra anima alla perdizione). Finale in jam sessions, dove svettano i riff taglienti e sbilenchi di Richards (non da meno le secondi voci in un uh hu hu che ha fatto storia e il piano di Hopkins).
Se il diavolo arriva, le persone normali se ne vanno. Questo è il tema di No Expectations, altra chicca acustica, dove i 4 elementi (la chitarra acustica di Richard, quella slide di Jones, il piano di Hopkins e il basso di Wyaman) riescano ad evocare semplicemente, ma in maniera magistrale il senso dell'abbandono e della partenza.
Altra canzone, altro cambio d'anima. In Dear Doctor viene fuori la vena country (sound che verrà ripreso nel successivo Let It Bleed), canzone ironica che tratta di un tizio che va dal dottore perchè deve sposarsi ma poi scopre che la sua sposa è scappata con suo cugino e sentendosi così notevolmente sollevato.
In Parachute Woman ritorna il tema (già trattato in Aftermath) della donna vista ora come angelo ora come puttana. Qua siamo per la seconda versione, la donna paracadute, capace di arrestare e di raccogliere tutte le passioni e i desideri di un uomo. Blues stradaiolo più che mai, con un Richards preso a disegnare grezzi riff concentrici impreziositi dall'armonica di Jagger.
La successiva Jigsaw Puzzle è dominata dalle visioni di una persona intenda a rimettere insieme il suo puzzle appunto, composto da una varietà infinita (il gangster, il cantante, il vescovo, solo per citarne alcuni) di persone che nella vita privata sono l'esatto opposto della loro vita pubblica. Lo schema è musicale è sempre il solito. La leggera batteria di Watts, le due chitarre, una acustica, una elettrica, di Jones e Richard a duettare sopra il basso di Wyman con il piano di Hopkins libero di fluttuare tra tutti gli strumenti.
Il '68 è anno di rivolte e di agitazione giovanili e da qui nasce Street Fighting Man. L'iniziale riff di Richards (vero marchio di fabbrica della band, riprende nel mood quello di Jumpin Jack Flash, pezzo singolo uscito a maggio del '68 e poi tenuto fuori dal disco), la batteria “da marcia militare” di Watts, il redivivo Jones che suona il sitar e le parole di Jagger (Amico, sento dappertutto il rumore dei piedi che marciano e che caricano perche, amico, l'estate è arrivata ed è il momento giusto per combattere per le strade ma cosa può fare un povero ragazzo se non cantare per una rock n roll band Perche in una Londra che dorme non c'è spazio per un combattente di strada, no! ) ne fanno sicuramente una delle canzoni più massicce e impegnate dei Rolling Stones.
Prodigal Son è un adattamento di That's No Way To Get Along di Robert Wilkins, veloce canzone country folk. Con Stray Cat Blues ritorna il blues. Un blues sinuoso, che narra le sensazioni e le emozioni di un adescatore di minorenni. La canzone si snoda tra l'ennesimo straordinario giro di basso di Wyaman, con un un Richards impegnato in una serie di riff assordanti e stridenti. L'insaziabile Jagger sussurra nel microfono (Scommetto che tua madre non sa che mordi così. Scommetto che non ti ha mai vista graffiarmi la schiena). Un attimo di silenzio, le percussioni di Watts e poi la band si rimette in moto in un finale da leggenda, con tutti gli strumenti perfettamente allineati e fusi in un suono unico. Factory Girl è un altro pezzo country-folk sullo stile di Prodigal Son, ma il finale è tutto per Salt Of The Earth, dolce ballata (ancora su gli scudi il piano di Hopkins) che va a chiudere il cerchio, grazie al coro gospel sul finale, con la voglia di popolo, di strada, di persone umili che traspare da tutto il disco.
Brindiamo alle persone che lavorano duramente. Brindiamo al Sale della Terra. Brindiamo ai due miliardi di persone. Pensiamo agli umili.



Sciarpi.

lunedì 18 maggio 2009

Rolling Stones - Aftermath (1966)





Anno:
1966

Etichetta:
Decca Rec.



Line - up
Mick Jagger - Vocals, harmonica

Keith Richards - Guitar, vocals

Brian Jones - Guitars, marimba, bells, dulcimer, sitar, harpsichord, harmonica
Charlie Watts - Drums, percussion, marimba, bells

Bill Wyman - Bass, marimba, bells, piano, organ, harpsichord

Track list
1. Paint It, Black

2. Stupid Girl

3. Lady Jane

4. Under My Thumb
5. Doncha Bother Me
6. Think

7. Flight 505

8. High and Dry

9. It's Not Easy

10. I Am Waiting

11. Going Home


Aftermath non è l'album più bello dei Rolling Stones, ma sicuramente è uno tra i più fondamnetali, sotto diversi aspetti. Il primo, quello più evidente, è la scrittura dei pezzi tutti a firma Richards/Jagger, binomino che firmerà da li in poi tutte le altre canzoni degli Stones. Il secondo punto è l'evidente rottura (sia a livello musicale sia a livello tematico) che questo disco vuol dare con il recente passato degli Stones. In questo album i Rolling Stones cercano di togliersi l'etichetta di gruppo beat, di gruppo facente parte della British Invasion. Volevano togliersi di dosso i primi anni '60, di distaccarsi dai Beatles e di affondare ancora di più nel blues. Così come un anno prima per Beatles (vedi Rubber Soul, uscito nel 65), i Rolling Stones avevano l'intenzione di creare un disco che avesse canzone legate da un preciso filo conduttore e non solo di singoli e hit da classifica. Non solo sesso, droga e rock 'n' roll ma anche un blues sporco, capace di offondare le proprie le proprie radici sulla strada: blues dei neri cantanto da bianchi. Non per questo si può considerare senza essere accusati di blasfemia, i Rolling Stones come il più grande gruppo blues-rock bianco (o rythem&blues se preferite). E questo Aftermath è il primo mattone. Ultimo, ma non meno importate, è la ricerca e il seguente utilizzo di strumenti non propri del rock. Qua sta tutta l'abilità di Brian Jones (qualità che sarà croce e delizia per la sua persona). Jones introduce nel gruppo l'uso del sitar (ispirato da George Harrison dei Beatles che lo incomincio a suonare proprio in Rubber Soul), oltre a suonare il dulcimer, le marimbas, l'armonica, la chitarra e le tastiere. Nel complesso è un disco semplice, ricercato più nella strumentazione che nel suono, ma allo stesso diretto, spiazzante con un messaggio ben preciso dall'inizio alla fine: la vità è sporca, l'illusione è male, la disillusione è bene ed è l'unica arma che ci abbiamo per salvare la pelle. Significativa è anche la copertina dell'album. Fino ad ora gli Stones nell'album si presentavano tutti e 5 in posa: lo sono anche qua, ma l'immagine è sfuocata a testimonianza che alla fine tutto è destinato a svanire. L'album si apre con Paint It, Black, una delle canzoni più belle del disco. La batteria marziale di Watts, mitigata dal sitar di Jones fanno da tappeto al canto ora ribelle ora malinconico di Jegger. La controrivoluzione dei Rolling Stones nelle parole di Jagger (I look inside myself and see my heart is black I see my red door and it has been painted black/Maybe then I'll fade away and not have to face the facts ), dove la vita non è macchine e colori primaverili (con riferimento all'età dell'Oro di Elvis), ma è solo un buco nero da dover far proprio, idealmente rappresentato dall'ipnotico giro di basso di Wyman. Anche la successiva canzone, Stupid Girl, è un manifesto contro la donna, dedita solo ad occuparsi di cose futile nella vita (vedi la canzone precedente). Sempre sugli scudi il duo Watts/Wyman, ma i riff secchi di Richards e la voce da oca nel ritornello di Jegger tolgono il senso di malinconia che si respiravca in Paint It, Black. Lady Jane è invece una dolce ballata d'amore, dove stavolta come protagonista è il dulcimer suonato da Jones. Il suono si sporca con Under My Thumb, dove Jones suona l'ennesimo strumento diverso, la marimba. Un Jegger guascone, firma un altro pezzo dove la sottomissione della donna e la sua inferiorità sull'uomo (tema che sarà uno dei capi saldi del nascente hard rock) la fa da padrone (Under my thumb/ The Girl who once had me down/ Under my thumb/ The girl who once pushed me around/ It's down to me.."). Doncha Bother Me e Think si possono legare insieme. Il primo un pezzo blues con tanto di armonica (ancora Jones), il secondo un pezzo blues-rock dove i 5 elementi raggiungo si equilibrano a vicenda, un modo di suonare che sarà ripreso anche negli album successivi. Flight 505 si apre con il pianoforte, ed è forse l'unica canzone dall'animo beat, ma è disordinata, scomposta: un aereo senza controllo in caduta libera (No idea of my destination and feeling pretty bad) . Altra chicca è il country blues di High and Dry, che insieme alla vivace Its No Easy, portano alla splendida I'm Waiting. Jones riprende un a suonar il dulcimer che insieme al basso di Wynam richiamano il disincanto di inizio album, espresso dalle parole di Jegger (I am waiting, I am waiting/ Waiting for someone to come out of somewhere ). L'album si chiude con Going Home, spettacolare canzone in free form di 11 minuti. Immenso il lavoro di Wyman al basso, precise le chitarre di Richards e Jones, con un Jegger che cavalca tutti gli strumenti con una prestazione vocale da incorniciare. Le pietre incominciarono definitivamente a rotolare...

N.B: la versione di Aftermath tratta è quella uscita in Usa. Nella versione inglese ci sono 3 canzoni in più (la prima la splendita Mother's Little Helper) e l'ordine delle tracce è diverso ma non c'è Paint It, Black.



Sciarpi.