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sabato 4 aprile 2009

Black Sabbath - Never Say Die! (1978)


Anno: 1978

Etichetta: Sanctuary

Tracklist:
1. Never Say Die
2. Johnny Blade
3. Junior's Eyes
4. A Hard Road
5. Shock Wave
6. Air Dance
7. Over to You
8. Breakout
9. Swinging the Chain

Leggero come una piuma
Never Say Die! è l'album più leggero dei Black Sabbath, in assoluto. La sua essenza è ben catturata dal concept del veivolo, sviluppato nell'artwork. Due piloti in copertina, progetti aerospaziali all'interno. è l'aria che diventa musica. Qualcuno prima d'allora poteva mai immaginare i Black Sabbath a suonare come suonerebbe l'aria? Beh nel 1978 la band che inventò tutto (o quasi) inventa una versione dell'HARD rock il più leggero possibile, contaminato dall'elettronica, da innesti di piano e fiati, l'idea era quella di fare una musica che prendesse il volo. Non un album poppeggiante o lento, al contrario! Un album di canzoni energiche ancorchè leggere, così energiche che possono prendere il volo, verso chissà quali lidi, sicuramente lontano dalle origini del gruppo, lontanissimo dal suono torbido dei primi album, ma non ancora nel tunnel metallico che verrà dopo. Questo è un episodio assolutamente unico, l'ultimo con Ozzy, rientrato nella band dopo la morte del padre, al quale dedicherà Junior's Eyes, cambiandone il testo, originariamente cantato in una trasmissione della BBC da Dave Walker (Savoy Brown, Fleetwood Mac), che fu scelto come cantante dei Sabbath dopo il primo abbandono di Ozzy, e che quindi nelle sessions dell'album aveva già cantato diversi pezzi, che ora verranno quasi tutti ricantati da Ozzy, salvo il brano conclusivo dell'album (che lui si rifiuterà di cantare) che ora noi ricordiamo con la voce del batterista Bill Ward.

Uno shock per i fan
Se il rock radiofonico di Technical Ecstasy è decisamente troppo per i fan dei Black Sabbath, il troppo non è mai troppo per quanto riguarda Never Say Die!, considerato solitamente come tra i peggiori passi falsi di tutta la carriera dei Black Sabbath e il peggiore con Ozzy. Naturalmente non è così, anzi, fossero tutti come questo i passi falsi! Di certo non fu una scelta semplice quella di fare un album jazzy, perchè innanzitutto non erano anni in cui queste cose andavano per la maggiore, anzi, la moda del jazz rock era già in soffitta, il movimento era incominciato dieci anni prima, con i primi esperimenti sul caso fatti da Miles Davis, ed era andato via via ritirandosi dalla grande contaminazione anche in classifica, confinandosi in fenomeni sempre più di nicchia o risolvendosi in semplice musica da veloce intrattenimento. I Black Sabbath, alla faccia del fenomeno di costume passato alla storia come movimento punk, addirittura complicano le cose e riprendono la ricerca lasciata con Sabbath Bloody Sabbath. Avrebbero potuto fare un album più grezzo e semplice per rincorrere i gusti del mercato, e invece fanno un disco raffinato, per quanto raffinato possa essere un album dei Black Sabbath, e soprattutto un album di ricerca tecnica, come emerge nello sforzo di Tony Iommi di evolvere il suo stile, attingendo dal jazz, attingendo dai chitarristi prog, ed elaborando una sua sintesi molto personale, che poi è la mediazione tra musica tosta e ignorante e musica d'impegno tecnico che è il compromesso che sta alla base della nascita dell'heavy metal, come metallica è Shock Wave, canzone figlia di questa ricerca di Iommi, che infatti si lancia in un assolo bellissimo, tra i suoi migliori. Ancora meglio fa in Air Dance, un brano praticamente jazz rock (o fusion come si dirà dopo), in cui Ozzy si sente esageratamente fuori luogo, la sua voce è anche di troppo in un pezzo dove le linee melodiche sono già ben sviluppate da quell'intenso e caparbio scambio di assoli tra tastiera (che vedremo ricoprire un ruolo fondamentale nel disco) e chitarra, ora elettrica, ora acustica, ora contenuta o arpeggiata, ora devastante e pronta a prendere pieghe imprevedibili, percorrendo strade mai battute fin ora da band HARD rock, facendo uno sforzo di inserire questa musica di fusione in un contesto duro e pesante che non è facile da inacidire e deviare in questo modo, se non a costo di tirarsi addosso tutta la critica dei fan più oltranzisti, che (e sarebbe paradossale) poi però magari apprezzano l'esperienza dei Cynic, di quindici anni dopo, e non colgono la potenza della suggestione della fusione tra pianista classico(e che suona come tale) e band HARD rock in Over To You, dove tra riff pienamente sabbathiani e la linea a la Chick Corea & Return To Forever di piano e basso corre un abisso, un abisso di fascino.

Tra memoria e ricerca
Never Say Die è allo stesso tempo sulla scia del facile ascolto del precedente Technical Ecstasy e la prova è nell'hard rock in versione leggera come nella posata A Hard Road, o nella più swing n roll Never Say Die, agile e leggero brano d'apertura, che mostra sin da subito il loro approccio più morbido ai brani più movimentati, Iommi, distorto e caciarone fa da pulvisolo atmosferico e la sezione ritmica, sempre brillantissima nel disco, fa da motore per questa grande aeronave che si regge sulle ritmiche possenti e molto dinamiche di Butler e Ward.
Johnny Blade è impreziosita dalla presenza di Don Airey suona le tastiere, fondamentale e addirittura necessario a questo nuovo modo di suonare dei Black Sabbath, che integrano al meglio il loro rock molto melodico all'elettronica dei synth, qua usati molto più consapevolmente che in passato, proprio per rimarcare quell'aspirazione aeriforme di questa nuova incarnazione del gruppo. Il brano si regge su una bellissima ossatura tra batteria di Ward, qua molto ispirato al jazz, come nei primi due album, e il sintetizzatore di Don Airey, che fanno insieme una bomba allo stesso tempo molto orecchiabile e quasi futuristica, molto diversa da quanto fanno fin ora dai Black Sabbath, in parte un degno seguito di Sabbath Bloody Sabbath. Don Airey è grandioso quando escogita intarsi di solismi di pianoforte nell'unico lento, tra l'altro atipico, dell'album, Over To You. Ugualmente jazzy è Junior's Eyes, dove emerge un grandissimo Butler, e un Tony Iommi molto sottile e atmosferico, molto più agile e meno ingombrante che in passato, qua non fa da corpo massiccio della canzone, ma da abbellimento e da elemento di raffinazione, pur nella pesantezza dei suoi assoli, che non tardano ad arrivare, più leziosi e aggrovigliati che nei primi album, e a propagare le loro onde affascinanti sul rimbombo dello straordinario giro di basso di Butler, fino al bellissimo finale dove tutto si appiana in una sorta di trionfo paradisiaco, a sottolineare l'idea di ascensione e passaggio attraverso il cielo. L'elemento dell'aria , come vedete, ritorna sempre, anche quando a bucare l'aria è una persona che, come un lampo, fugge via, e lascia per sempre questo mondo.
Un album malinconico: il tema della perdita di una persona cara è parallelo e complementare alla perdita di se stessi, come la ballerina della tenera Air Dance, ormai solo un ricordo lontano nei pensieri di una anziana signora, che però ancora balla nell'aria, nell'immaginiazione. Leggiadra, nell'aria, è la chitarra di Iommi a fare cose meravigliose e suggerire visioni eleganti all'ascoltatore, come una danzatrice, sulle code della chitarra. E si riscopre il valore della memoria e degli affetti. Poi c'è la frustrazione dell'uomo moderno nell'allegoria del killer di Johnny Blade; chi è la vittima e chi il carnefice? E allora torna il tema dell'emarginazione, torna il tema della violenza e dell'origine dei mali sociali, anche con una velata critica alla criminologia liberale. Non sono più le tinte gravi e truci dei primi Sabbath a dominare i testi, ma metafore più sottili, come questa "Life becomes the singer and the song, sing along", ma il messaggio non è solo di sconsolata malinconia, ma pure un inno alla vita e alla voglia di riprendersi, come dice la title track. Quasi che ora la contrapposizione con l'idea della prossimità alla morte sia un modo per celebrare la vita, sia guardando al futuro, sia rielaborando la memoria.

Una sezione di fiati per i Black Sabbath
Un chiaro rifacimento di Miles Davis sembra invece Breakout, dove troviamo una sezione di fiati la cui parte è arrangiata da Will Malone, un perfetto stacchetto di quasi tre minuti che confermano la visione jazzistica di quest'album, seppur sempre legato a un concetto molto oscuro della musica, e infatti questo pezzo fa solo da intro alla cattiva Swinging The Chain, cantata e suonata da Ward, e con uno Iommi che gioca a fare l'americano, e per giunta sudista, e irrompe in un devastante scambio tra cavalcate elettriche di chitarra da infarto e risposte di tromba, tutto perfettamente incastonato in una grandissima prestazione alla voce del batterista, che si conferma un ottimo cantante, buon interprete di questi Black Sabbath, che cono un buon riassunto di un decennio che volgeva a termine (e che loro nel 1969 avevano già battezzato col fuoco), tra brevi richiami alle loro origini, richiami al blues, richiami al progressive e al jazz rock, tutto il rock degli anni settanta, o quasi, tra scantinato e successoni da classifica, in soli nove brani, che sono sia una celebrazione della grandezza del decennio, sia un modo per coglierne le contraddizioni, la varietà e l'infinita ispirazione che ha saputo dare e che ancora darà a noi tutti.

Ozzy lascia i Black Sabbath, definitivamente, gli anni settanta sono veramente finiti.

John

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Black Sabbath - Technical Ecstasy (1976)


Anno: 1976

Etichetta: Sanctuary

Tracklist:
1. Back Street Kids
2. You Won't Change Me
3. It's Alright
4. Gypsy
5. All Moving Parts (Stand Still)
6. Rock 'n' Roll Doctor
7. She's Gone
8. Dirty Women

Robot sulle scale mobili
Quest'album non piacerà facilmente a chi segue i Black Sabbath. Ancora meno a chi è interessato specialmente al loro primo decennio, e non tanto perchè esso sia in qualche modo un anticipo della loro evoluzione negli anni '80, tutt'altro! Nella sua unicità, l'episodio di Technical Ecstasy si discosta sia da ciò che lo precede, sia da ciò che lo seguirà a distanza di quattro anni. In un certo senso la passione per le atmosfere a la Queen, un po progressive, un po pop, e alquanto melodrammatiche, qua vede un exploit più razionalizzato che nel precedente Sabotage, e ne rappresenta la versione più ripulita e che, pur continuandone il discorso, è come se fosse il giorno che segue alla notte. Un album a suo modo "pulito", quindi non solo diverso nello stile, dal periodo classico (capostipite del doom) dei Black Sabbath, ma diverso proprio nel mood, qua più da usurate rockstar (con i loro drammi e le loro manie) che da pifferai malefici. Tony Iommi qua prende le redini del gruppo, e si carica addosso la sua relativa stanchezza, per fare un album praticamente tutto incentrato sulla sua crescita come chitarrista e come compositore. Gli orizzonti dei Black Sabbath si ampliano a dismisura. E questo spiazza i fan del loro primo periodo, spiazza soprattutto Ozzy, che dopo questo disco lascia la band (salvo poi ripensarci dopo qualche mese, tornare e poi andarsene di nuovo).
Da segnalare pure l'artwork(non solo copertina) bellissimo di Kipper Williams, che già aveva collaborato coi Pink Floyd. Due robot che si sfottono. Non solo è un elemento di modernità, ma è la prima volta che i Black Sabbath sdrammatizzano su questo tema. Il loro problema adesso non è più quello della guerra e dell'apocalisse nucleare, loro parlano della solitudine(ricordate "Solitude") ma la solitudine della rock star, l'unica che può capirli è una puttana trovata per strada nei vicoli di una città che dorme. Che la rock star non sia molto diversa da una puttana?

Progressi e aspettative, ecco le canzoni
La vigorosa Back Street Kids, mostra la miscela di proto-metal - sintetizzatore - ritornello pop che è il vero esperimento radiofonico dei Black Sabbath, l'hanno già fatto in Sabotage e riprovano ora, con un pezzo che sintetizza meglio le diverse prove fatte in Sabotage, cercando di sintetizzare al massimo i diversi filoni percorsi, e il risultato è potente, molto moderno per quei tempi, già praticamente cinque anni avanti e più. Altro che "Am I Going Insane". La voce i Ozzy e più cattiva, maturata rispetto al tormento degli album precedenti, e anche essa curata con suoni più metallici e rigidi.
You Won't Change Me è l'unica che nell'introduzione conforta, con un riff che sembra provenire ancora dai primissimi Black Sabbath, quelli dei primi tre album, per poi mostrare ancora più chiaramente il tempo che è passato, sostenendo quell'incedere marziale e lento con il suono di un organo che pompa la chitarra di Iommi, tutto immerso in un ambiente sintetico; tutt'un tratto quella introduzione tetra diventa una possente e malinconica ballata, con il chitarrismo ingombrante e statico di Iommi che si sposa perfettamente con l'organo: sembra di sentire una cattedrale che prende vita e inizia a muoversi, lentamente, trascinando a fatica i suoi marmi, e quando le pietre stridono e si sbriciolano provocano rumori assordanti, quei rumori che non sono altro che quel rombo di Iommi che decora questa meraviglia architettonica con le meraviglie della sua chitarra, ora agile ed elegante, nel buio di una notte che sembra tradire misteri inquietanti. In effetti questo disco è tra i meno Ozziani di tutti, ed infatti è più che altro l'inizio del grande show del baffuto chitarrista, e non è nemmeno sempre Ozzy a cantare, per esempio in It's Alright canta Bill Ward, tra l'altro mille volte meglio di quanto avrebbe potuto fare Ozzy. Un lento mezzo elettrico e mezzo acustico. Ed è il secondo lento consecutivo. Qua Iommi strega chi ascolta con una bellissima fantasia di chitarra, prima elettrica poi -sublime- in veste acustica, parzialmente ispirata al flamenco ed influenze classiche. In pratica l'accoppiata elettrico-acustico di "Symptom Of The Universe" sintetizzata senza l'espediente del brano sdoppiato in due fasi, e... in un lento, questo è il bello, per la prima volta ci sono due lenti consecutivi, due pezzi che sono fondamentali per l'economia e il senso dell'album stesso. Sul finire del lato B, spicca un'altra perla di malinconia, She's Gone, dove la voce e l'essenziale chitarra acustica sono questa volta dotati di un accompagnamento orchestrale. Sul versante più hard, certo troviamo episodi molto validi, anche se nessuno proprio cattivo, a meno che non ci si vuole accontentare delle accelerazioni repentine all'interno di Rock 'n' Roll Doctor ; infondo ci sono solo belle canzoni fatte ad arte, senza le atmosfere oppressive di Sabotage ed i suoi lunghi lamenti intricati, e quindi ci si potrà stupire al massimo con qualche colpo di classe che fa la differenza, come quel giro di basso di Butler in All Moving Parts (Stand Still) che in pratica decide tutto il pezzo, o quella trovata del ritmo gitano nell'introduzione di Gipsy, estremamente percussiva, specie nell'uso del piano, quando non fa da contrappunto per le scorribande di Iommi.

Uno sporco lavoro per sporche donne
Il problema del disco è che difficilmente una persona che cerca un prodotto del genere andrà a cercarlo in un album del Black Sabbath, non altro. Non c'è nessun altro difetto oggettivo, almeno per gli amanti dell'hard rock puro, che qua da saggio di se in tutto il suo splendore, almeno in un pezzo degno dei classici hard prog di Sabbath Bloody Sabbath, Dirty Women, un appassionante giro in avvitamento libero su se stessi, in una corsa folle ed ebbra di vita, accompagnati da un Ozzy più trasportato ed enfatico che mai e dal più classico Iommi che dirige e sconvolge il pezzo trascinandolo per sette minuti in una pozza di petrolio, per poi accenderla e farle prendere letteralmente fuoco in un assolo che non vuole veramente finire mai. Da lacrime agli occhi. Puttane ok, ma come son bravi loro a fare questi lavoretti, non è bravo nessuno.

John

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venerdì 3 aprile 2009

Black Sabbath - Sabotage (1975)


Anno: 1975

Tracklist:
Hole In The Sky
Don't Start (Too Late)
Symptom of the Universe
Megalomania
The Thrill of it All
Supertzar
Am I Going Insane (Radio)
The Writ/Blow on a Jug

Sabotage è un album contraddittorio, mosso da spinte opposte e divergenti. Sabbath Bloody Sabbath rappresenta la massima espansione artistica dei Black Sabbath, e il suo seguito in parte prova a proseguire l'esperimento incominciato, in un certo senso estremizzandolo (Megalomania) o provando a riassumere le diverse anime di Sabbath Bloody Sabbath in pezzi singoli (Symptom Of The Universe), in altri pezzi pecca di troppa orecchiabilità e di totale asservimento al dictat del progressive imperante, Am I Going Insane (Radio) (uno dei peggiori brani dei Sabbath) è orientato sui sintetizzatori più di qualsiasi cosa presente sull'album precedente, ma svilito su una forma ripetitiva e stancamente radiofonica, troppo poco ardito per essere un atto di rottura verso le tensioni delle case discografiche, più che altro segno di un gruppo che ormai non voleva fare più paura a nessuno. I tempi di Master Of Reality sono lontanissimi in tutti i sensi, forse questa è già un'altra band, ormai completamente sbilanciata, tutta su Iommi, e ormai corrosa da divergenze che porteranno alla crisi e a un interminabile era di instabilità della line up, fino al colpo di mano di Iommi. Ozzy lamentava l'aver perso l'immediatezza di un tempo e la pesantezza del lavoro di produzione in studio, e con esso, naturalmente, questi suoni, che non conoscono vie di mezzo e vengono fuori o patinati e schematici (Am I Going Insane e l'imbarazzante scontatezza di Hole In The Sky) o ricadono nell'estremo opposto (vedasi le due quasi-suite Megalomania, oltre dieci minuti, e The Writ, oltre otto minuti a parte l'inutilissima ghost track di 20 secondi di parodia registrata a bassissimo volume).

Emblema delle contraddizioni di Sabotage è l'ottimo dualismo di Symptom Of The Universe, per metà abbondantemente heavy metal (se non quasi thrash), con un Ward dinamico e calato nella canzone nei paranoici esordi, uno Iommi a dir poco onnipresente, capace di fare tutto, con un lavoraccio di riffing che è la fine del mondo, uno degli assoli più belli di questa fase, bello freddo, e poi immenso nella seconda parte del pezzo, tutta acustica, quasi un momento a se, opposto al primo, un divertimento per il baffuto chitarrista, che inizia a scoprirsi cultore del virtuosismo, affascinato dal flamenco e dal progressive, e ora autore di un lungo passaggio acustico emozionante e ben contrapposto alla freddissima introduzione heavy.
Questo dualismo, e questa doppia anima di Sabotage, si esprime in un album che va costantemente in due direzioni diverse, sfidando la banalità con l'intermezzo medievale da autorecicaggio (il minuto scarso di Don't Start Too Late), e il secondo intermezzo anche esso medievaleggiante che si avvale pure di un superarrangiatore, Will Malone che dirige l'English Chamber Choir in un canto gregoriano per la prima volta inserito in un pezzo hard rock (Superztar, una noia mortale).
Sul fronte opposto The Writ è un esperimento horror ben riuscito (pur sempre mero intrattenimento rispetto agli esordi), una lunga e variopinta commistione tra belle line melodiche e qualche bella idea (specie le nuances acustiche sul finale) per inscenare un clima inquietante e tetro, qualche piccolo effetto speciale per renderla più ambient possibile (almeno per i canoni hard rock - prog dell'epoca), estroversa e scenografica come un musical, conia una nuova forma espressiva dei Black Sabbath, che ritroviamo in Megalomania, un altro pezzo molto lungo e visionario, strutturato come una suite progressive ma "pop" come uno spettacolino teatrale, con un bel pianoforte che interviene per il cambio di scena, tutto ovviamente trainato dal regista Tony Iommi, una vera e propria fabbrica di idee, e poi ancora coretti e refrain che si impromono facilmente, quasi da show televisivo, per un Ozzy sempre più graffiante e padrone delle scene più che curato nelle sue prestazioni, comunque mediamente più elevate tecnicamente. Ovviamente, come ci si aspetta, poi c'è un finale in grande stile, tutto come previsto, tutto un ricamo ultrabarocco per un gruppo che è nasce e muore come l'esatto opposto del barocchismo, e quindi il risultato va un po preso per quello che è, un esperimento, una bella canzone, ma nulla che lascia il segno.
Diverso è il discorso per Thrill Of It All, che trova la sua bellezza nel suo essere perfettamente a la Sabbath Bloody Sabbath: molto tecnica, melodia sinuosa, chitarra avvolgente e che si muove a spirale, tanti momenti solisti emozionanti, sintetizzatori nella giusta musura, epica e pathos, progressione e cambi di ritmo nel momento più toccante, tutti fanno il massimo, tutti si distinguono, con stile e raffinatezza, tutto nelle giuste musure. Piccola parentesi equilibrata e intelligente in un album dilaniato dai contrasti.

John

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giovedì 2 aprile 2009

Black Sabbath - Sabbath Bloody Sabbath (1973)


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Anno: 1973

Etichetta: Sanctuary

Tracklist:
Sabbath Bloody Sabbath
A National Acrobat
Sabba Kadabra
Killing Yourself To Live
Who Are You
Looking For Today
Spiral Architect

Il senso della vita, la morte
Un uomo straziato e tormentato nel suo letto, attanagliato da demoni spaventosi, si dimena, prova a difendersi, ma è stritolato dalla morsa di un serpente, soffoca. Su di lui incombe una presenza malvagia che sembra risucchiarlo. Questa è la copertina, e questo è il senso del disco: il tormento, la lotta tra bene e male, il lavoro interiore. The end begins to show, recita la traccia che epre da titolo al disco. I cancelli della vita sono chiusi su di te, e non c'è ritorno, quindi l'idea dell'ineluttabilità della morte, che è il senso ultimo del perchè del genere doom e dei Black Sabbath, e infine il passo più significativo di tutti: speri che le mani del destino possano portare via la tua mente e non ti interessa se non vedrai ancora la luce del giorno. Così tornano le Hands Of Doom a rapire la mente, portarla lontano, farla diventare padrona della realtà, anche se il prezzo è non vedere più la luce del giorno, come si ribadirà poi in seguito con Killing Yourself To Live, che però non è banalmente una sorta di manifesto musicale al suicidio, ma una aspra critica al suicidio quotidiano tra falsità (qua si ricorre alla metafora dei colori, e la metafora del su e giù) e sacrificio, per poter scendere costantemente a compromessi, anche a costo di annullarsi. Morire, anzi, prendere coscienza della morte quotidiana, e dell'inevitabilità della morte, diventa il senso della vita.

La svolta definitiva e l'ultimo grande successo
Sabbath Bloody Sabbath è l'album di una band calata nei tempi, che sa sfruttare le tecnologie a sua disposizione, che non segue le mode ma non se ne frega del tempo che passa e dei gusti che cambiano e soprattutto, non vuole mai ripiegare su forme già usate nei dischi precedenti. L'album viene fuori da una lunga stagione di blocco creativo che aveva immobilizzato sul letto la band, vuoi per le mille dipendenze da alcol e altre sostanze (l'esperienza di Geezer fu la più dolorosa, visto che fu ricoverato, e quel letto della copertina inizia ad assumere un senso molto più concreto), vuoi perchè la scossa vincente doveva ancora arrivare, e questa fu data dal memorabile riff di Sabbath Bloody Sabbath. I Black Sabbath si salvarono dallo strangolamento dell'inattività e ripartirono da dove avevano smesso, per preparare il loro album che corona il periodo classico della band.
Con il quarto volume, e ancora di più con questo Sabbath Bloody Sabbath appare sempre più palese quanto Master Of Reality fosse stato solo un episodio isolato, e che i Black Sabbath (Tony Iommi) erano interessati a una formula sempre più orientata al progressive, coltivando tra l'altro quei "semi" di progressive presenti già in Paranoid, ora sviluppati con maggiore voglia di sperimentare e con aspirazioni anche melodiche completamente inedite, molto più chiare che nel quarto volume, e soprattutto ancora più concrete e "perfette": soli 8 brani, nesun riempitivo ne introduzioni, intermezzi o altro, 8 pezzi secchi secchi, tutti compiuti e tutti assolutamente necessari, tant'è che se ce ne fosse uno in meno cadrebbe tutta la fine architettura di questi Black Sabbath. Questi Black Sabbath, è bene dirlo, non li ritroveremo più, perchè così non suoneranno mai più, e perchè la maggior parte del pubblico si fermerà qua ad ascoltarli e non si spingerà oltre. Sabbath Bloody Sabbath fu il loro ultimo grande successo commerciale, secondo solo alla prima triade a livello di vendite, pur essendo un disco solo per una metà più accessibile e levigato, e per un'altra metà del tutto diverso da quello che un fan si poteva aspettare.

Le ambizioni progressive di Tony Iommi
Sabbath Bloody Sabbath può avere due chiavi di lettura, la prima è quella del disco prog. Da prendere con le pinze, perchè non è prog fino infondo, ma è più che altro il segno dell'aspirazione prog dei Black Sabbath, ossia di Tony Iommi. E non è di poco conto questa precisazione, perchè anche questa maggiore spinta verso questo sound è segno che le redini della band le stava prendendo il baffuto chitarrista, inventore del sound sabbathiano, dei riffs tra i più memorabili della storia, ispiratore dell'heavy metal, doom e tutto l'hard rock a venire, e ora fautore di un tentativo di reinventare innanzitutto se stesso, vuoi perchè nel disco si propone anche al piano e tutto quello che capitava sotto mano, vuoi perchè sembra suonare diverse chitarre e non una sola come in passato. Master Of Reality era un capolavoro di intransigenza e musica monolitica, Sabbath Bloody Sabbath, la sua antitesi, è una grande prova di uno Iommi vario e che da tozzo diventa estremamente melodico, vario, sia in veste elettrica, sia in veste acusica, e non solo per utilizzare l'acustica come riempitivo, ma capace di intrecciare strutture complesse, ora barocche ora semplicemente arrangiate alla grande, tutt'altra storia rispetto al passato, tutt'altro chitarrista, che ora viene fuori con tutte le sue lune e i suoi contrasti, ma pure con gli inevitabili contrasti col resto della band, per ora perfettamente composti e sintetizzati nel disco.
Sempre in base a questa prima lettura, possiamo individuare quattro pezzi di una eleganza mai vista dei Black Sabbath, quattro raffinatissime composizioni finemente curate, e sviluppate sia nei riffs granitici come sempre (come nel cupissimo rallentamento nel bridge), ma anche spalmate su melodie d'ampio respiro, leggere, cangianti ed eteree, come in Sabbath Bloody Sabbath, che già col titolo richiama l'attualità (bloody sunday) pur proponendo un testo intimista e dai contenuti ricchissimi, il vero emblema della nuova formula, sempre stridente, con tanto di basso fuzz di Geezer che tuona e spruzza una sorta di inchiostro di china nero sullo sfondo sul quale si muove una scena rinnovata, più fresca che in passato, dove Ozzy sembra finalmente più umano più musicale, e Iommi stende sull'intelaiatura percussionistica di Bill Ward un moto ascendente nel finale, simbolo della vita che prende il volo. Il volo della vita, dalla cellula embrionale al futuro, è proprio l'immagine di panico sublime che si ha con A National Acrobat , e qua lo slancio è ancora più esplicito con una sezione ritmica jazzata e Iommi che parte in due solos non complessi ma temerari, il primo forse è tra i suoi più originali, segmentato come fosse un'elica, il secondo stacca completamente col pezzo e spinge avanti a tutta velocità (crescente), come fosse un propulsore. Killing Yourself To Live esprime le frustrazioni di Geezer durante il lungo periodo del suo ricovero per epatite, ed è l'episodio più melodico di questa versione hard-prog dei Sabbath, con Ozzy disinvolto e capace di una interpretazione che supera anche i suoi evidenti limiti tecnici, anche lui, come Tony mette le mani sul sintetizzatore, e ne viene fuori un pezzo plastico e sinuoso, più colorato e slanciato di qualsiasi cosa mai fatta prima dai Black Sabbath, un vero e proprio lampo di luce, con una parte solistica di chitarra a dir poco esaltante, avvolgente che riempie tutti gli spazi invece di spezzare il ritmo serrato. Iommi stende il colore, Iommi ricama, Iommi perfeziona e mette a punto il prototipo di brano sabbathiano-orecchiabile che sarà uno standard per il futuro, il vero punto di passaggio tra le loro canzoni iper-ritmiche e l'era della ricerca melodica che in fin dei conti sarà la negazione delle origini quanto l'approdo a nuove forme espressive. Si spinge ancora più avanti Looking For Today, che in più ha (scusate se è poco) delle aperture acustiche straordinarie e intermezzi di flauto e organo, tutto by Iommi, tutto atmosfera, solo che se i primi Sabbath li ricordiamo per le atmosfere cupe e orrorifiche, questi Sabbath si fanno ricordare per atmosfere più ambigue, plumbee ma di sicuro non oscure, ricche di sfumature e di ambivalenza, parte per parte ricavata grazie a contrasti studiati e ricercati.

Il lato sperimentale
La seconda chiave di lettura è offerta da altri quattro brani molto diversi dai precedenti, ugualmente influenzati dal prog, più che altro sulla strumentazione, e nelle atmosfere, prima che nella produzione curatissima e moderna. Questi quattro pezzi si alternano a quelli di prima e ne sono in un certo senso il volto segreto, più diverso in un certo senso sperimentale.
La strumentale Fluff, è frutto maturo di sperimentazioni acustiche che vanno avanti da tre album, mentre però in Master Of Reality c'erano due intermezzi acustici, uno folk e uno medievaleggiante, nel quarto volume c'era già una bella canzone strumentale, Laguna Sunrise, tutta esotica, una sorta di devertissement però, tutt'altra cosa rispetto a Fluff che elabora una sintesi straordinaria tra suggestioni caraibiche e sonorità prese dalla musica barocca, infatti Iommi si mette alla prova con steel guitar, piano e harpsichord, strumenti che presi in modo isolato provengono da storie e geografie molto diverse, accompagnato solo da Geezer e nessun altro, per quasi cinque caldissimi minuti sfumati e meditativi.
Sabba Cadabra è un brano ingannevole, perchè pare quasi il pezzo più sempliciotto del lotto, semplice rocknroll grezzo e aspro, e invece si rivela un'arma a doppio taglio, e quell'inzio così gradasso è solo un modo per aprire una ferita da leccare lentamente, man mano che i tempi inziaiano a cadenzarsi e si apre un varco di eleganti sperimentalismi melodici dove Ozzy mostra tutte le facce del suo nuovo poliedrico abito tecnico e la band sfoggia un complesso e strutturatissimo intreccio delicato di sintetizzatore e pianoforte ad opera di Rick Wakeman degli Yes, ospite d'onore del disco.
Vistosamente anomala è Who Are You, semplicemente i Black Sabbath in versione synth rock. Tutto a la Black Sabbath, ma con una strumentazione cambiata, tutta tastierosa, tra moog, mellotron, timpano, e piano, tutti con la tastiera in mano, tutti pronti a stravolgere i luoghi comuni sui Black Sabbath, reinventando se stessi, diversa sostanza ma la stessa forma, ora eletrronica e allo stesso tempo retrò, per giocare sul concetto di identità, proprio in un pezzo che verte su questa problematica.
Spiral Architect è una nota malinconica a conclusione del disco, un lungo lamento di Ozzy che poggia su una versione sabbathiana e quindi fondamentalmente tristissima del rock classicheggiante (che di certo non nasce con questo pezzo), ossia una ballata con super-arrangiamenti sinfonici in cui non si risparmiano timpano, doppio basso, e uno Iommi che si divide tra chitarrista classico e suonatore di cornamusa, menestrello di un medioevo postmoderno fatto di eugenetica e incubi tutti inediti e immagini terrificanti, come gli imprenditori di pompe funebri che operano meccanizzati, sincronizzati, quasi in vista di una morte sistematica (controllata -scientificamente- si intende), il cielo è ora "a spirale", ora innevato di nero, i padri che piangono per i figli, segno di una totale sfiducia verso il futuro (alla faccia del no future prossimo venturo). Un secolo tutto nuovo e progredito, ma fondamentalente superstizioso. Ma dopo questo terribile lamento c'è sempre spazio per una soluzione, seppur velata La risate, l'amore che tocca mi sta mostrando la via, perchè al dilà di tutto forse è possibile cercare un messaggio di umanità, di ricerca interiore e che so, di speranza anche nei momenti più bui: Ho guardato sul mio cuore e ho sentito là il calore.

John

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mercoledì 1 aprile 2009

UNDERGROUND ATTACK – Rock&Dintorni COMPILATION VOL. 2


Il forum di Rock & Dintorni è fiero di presentarvi il secondo volume della compilation "Underground Attack". A distanza di un biennio ritorna l'iniziativa volta a pubblicizzare e diffondere, in maniera assolutamente gratuita, il verbo underground italiano, trovando sin da subito l'appoggio di gruppi più o meno famosi del panorama nazionale tra i quali Thrangh, The Orange Man Theory, Å (e molti altri), riscuotendo un buon successo nel circuito di Forumfree. E' con orgoglio che siamo riusciti a mettere a disposizione anche il seguito, Underground Attack Vol.2, cercando di assemblare una compilation che unisse le varie realtà italiane partendo dallo stoner/hard rock, passando dal metalcore e dal crossover per arrivare al post rock. Siamo convinti che il risultato sia ottimo, vi auguriamo quindi un buon ascolto sperando di vedervi anche sul nostro forum! A single road to follow...



Tracklist:
1. Deportivo La Bonissima - Oltre Il Buio

2. Lleroy - Breeder

3. Thin Wire Unlaced - Season

4. Godwatt Redemption - Death Generator

5. Stoner Kebab - Saint George

6. Monsterpussy - Bluola
7. Zippo - El Sitio

8. Daphne - Farewell My Concubine

9. Venezia - Il corpo e l'abisso

10. Berna Park Hotel - Surfjazz To Bloody Polynesia
11. Oink! - Cammariere

12. Chemical Marriage - Just A Taste

13. Three Eyes Left - Reveal The Nothing Man

14. Into My Plastic Bones - Camel Tsunami

15. Attic - So Sick And Cold

16. Neil On Impression - Barone


LINK AL DOWNLOAD:

- Diretto (Altervista): http://rockedintorni.altervista.org//YDownKount/download.php

- Rapidshare: http://rapidshare.com/files/212704570/Underground_Attack_Vol.2.rar.html

- Megaupload: http://www.megaupload.com/?d=V1TF1EPV

Se la compilation risulta di vostro gradimento, ma anche per critiche e proposte di vario genere, visitate il nostro FORUM, che tra l'altro è uno dei più visitati ed apprezzati in Italia per quanto riguarda il Rock, trattato in tutte le sue sfumature, da quello più classico ai suoni più estremi. Siete liberi di pubblicizzare e condividere la compilation quando e dove volete, ricordate soltanto di menzionarci e di aiutarci ad acquistare più visibilità. Un sentito ringraziamento a tutti i gruppi, le etichette e le persone che hanno collaborato!

Lo Staff di Rock e Dintorni.


Black Sabbath - Vol. 4 (1972)


Anno: 1972

Tracklist:
1. Wheels of Confusion
2. Tomorrow's Dream
3. Changes
4. FX
5. Supernaut
6. Snowblind
7. Cornucopia
8. Laguna Sunrise
9. St. Vitus Dance
10. Under the Sun

Master Of Reality al dilà dell'indiscutibile valore storico e creativo, non era stato altro che un'opera di autocelebrazione dei Black Sabbath, giunti al terzo disco, ormai consapevoli delle loro armi, e sicuri di sbancare anche senza rilasciare singoli e senza strizzare l'occhio a nessuno. Tuttavia nessun pezzo stravolge quanto inventato nei primi due album, anzi, per certi versi c'è una sorta di appiattimento della formula su brani il più rozzi e tozzi possibile, eccetto una Solitude, che non è che stravolga più di tanto le atmosfere di Planet Caravan (che resta insuperabile).
Volume 4 con le sue luci ed ombre invece, su tutti gli aspetti è una operazione estremamente rischiosa. è pur vero che si tratta di un disco più radiofonico (vedi Changes), e che si torna in questa sede a rilasciare singoli (Tomorrow's Dream trascina l'album verso tre dischi di platino tra USA e Regno Unito, ma sempre meno della scorpacciata degli album precedenti e del successivo), ma nonostante questo, l'album è il primo tentativo di transitare verso una formula diversa, prendere le distanze dagli esordi, e se è vero che non sempre il distacco si sente (vedi l'ossessiva Cornucopia, il pezzo più heavy del disco) e che in fin dei conti non sempre le idee sono messe a fuoco (vedi sempre la già citata Cornucopia). Un album di transizione quindi, che già introduce qualche elemento nuovo sulla tavolozza dei Black Sabbath, nuovi colori, lievemente più brillanti, uno su tutti: il bianco della neve, la cocaina, che aleggia in tutto l'album, che all'origine doveva essere intitolato proprio Snowblind, come l'omonima canzone (ma che ovviamente, causa perbenismo fu rinominato "volume 4"). Una relativa novità è la introduzione di elementi progressive; relativa perchè chi ha memoria, quegli elementi li riscontrerà anche in Paranoid, solo che ora sono notevolmente espansi e alimentati da una maggiore apertura alla melodia, che è il primo e vero elemento nuovo del disco. Un album melodico, tenue, in certi punti veramente dimesso, al dilà dei medievalismi degli intermezzi di Master Of Reality, e in un certo senso anche sperimentale, quando si tratta di mettere sul tavolo gli effetti, FX appunto, e lasciarli prendere le forme che da soli si determinano, in completa libertà, improvvisando e creando dal nulla una forma inedita a loro, più vicina al kraut rock nascente e a certo rock sperimentale che alle loro origini. Con quel minuto abbondante di intermezzo si segna la distanza da Master Of Reality: il classicismo contro la dissonanza del contemporaneo. Col quarto volume insomma, i Black Sabbath avevano già superato i loro stessi insegnamenti, e avevano già indicato una via alternativa a loro stessi, e poco importa se ci vorranno decenni perchè questa venga veramente recepita, ma se anche oggi esiste certa musica sabbathiana alternativa come Earth e Orthodox, è anche per merito del quarto volume, anche se (è bene ricordarlo) non si tratta di un album compatto e coeso come i precedenti, tantomeno un album tutto "alto" bensì, come ogni album di transizione, è un disco sbilanciato, vacillante, che in questa sua debolezza mista a spregiudicatezza riesce a trovare la sua forza.
Un tema assolutamente determinante, a prescindere dal fatto che si tratta di un concept sulla droga (fioccano i doppi sensi, le allucinazioni e le metafore, come quando si dice che la vita è come una grande over dose), è quello del distacco, del cambiamento, cioè lo scarto da uno stadio della propria vita ( o delle proprie convinzioni) ad un altro stadio, con tutto ciò che ne deriva (in termini esistenziali ma anche molto concreti, la "mancanza" che si avverte, e in un certo senso anche il disagio). Ed è bello pensare che in un album talmente coraggioso, la cosa che più affollava la mente dei componenti della band era l'idea del cambiamento, il passaggio, che qua è cantato e sviscerato nei temi e nei testi, ma è anche vissuto, a livello stilistico, nonchè a livello strutturale, in pezzi spesso cangianti e imprevedibili. Uno su tutti, lo splendido incipit con Wheels of Confusion che in pratica è formato da due parti che si bisecano scambievolmente, in un dolce passaggio molto disinvolto tra ritmi alternatamente più sostenuti o incredibilmente rallentati, ora in caduta libera a tutta velocità, ora in piena improvvisazione di un Iommi solista praticamente rinato, molto più melodico e capriccioso, ora solleticata da quel gap chitarra acustica - chitarra elettrica (una novità per la band) nel bellissimo assolo finale, uno dei più belli dai tempi di Paranoid (infatti troppo "bello" e troppo poco "bestiale" e cacofonico come nell'album precedente, dove Iommi più che altro imitava versi animaleschi... ma anche qua si avverte il cambiamento). Un pezzo che ricorda molto l'approccio live dei Sabbath, lungo e capace di lasciare abbondante respiro all'ascoltatore, l'esatto contrario delle sensazioni evocate da Master Of Reality. Ma "cambiamento" è anche la disillusione di Tomorrow's Dream (nuovo prototipo di forma-canzone sabbathiana da classifica, notevolmente alleggerita, e condita da una confortante ripetitività e melodia), e l'abbandono malinconico della ballata tutta voce-piano-mellotron Changes, in un testo tenero che mette in bella mostra tutta una impotenza nel gestire il divenire della vita come una continia tendenza al disordine, nelle idee, ed anche nelle relazioni, specie sentimentali, che sono quelle dove più si avverte il distacco tra dimensione dell'ordine interiore e la dimensione del caos fattuale che ci circonda e dal quale è impossibile prescindere, se si vuole restare calati nel reale, evitando di incorrere nel delirio di onnipotenza-ebbrezza di Supernaut, che lascia solo spazio al risveglio dal sogno lucido ed a una presa di coscienza della parzialità del reale. Supernaut è una eruzione dell'ego(ismo) quasi autistico di chi si rifugia in un mondo tutto artificiale, vistoso e apparentemente appagante, ma estremamente fragile, come tutto il resto. Il brano esprime questa libidine in un'orgia di percussioni di un Ward più tribale che mai che, con un groove trascinante, che esplode nel finale quasi "ballabile", duettando con uno Iommi agile e dinamico, così poco "ortodosso" nei confronti dei suoi stessi insegnamenti, tant'è che l'unico a mantenere farmo l'aspetto "cantilenoso" del pezzo è il buon Ozzy, che incomincia ad essere l'unico a mantenere fermo un certo stile, in questa sede reso quasi irriconoscibile, vuoi per l' alta velocità nell'assolo ti Iommi, vuoi per quel tocco esotico che proprio non ha nulla a che fare con gli esordi nebbiosi e umidicci -estremamente anglosassoni- delle origini. Proprio a proposito di "esotismo" è difficile non citare Laguna Sunrise, una enorme prova di meticciato strumentale che tributa la west coast americana, con tanto di violini che si stendono sulle corde della chitarra acustica -pulitissima- di Iommi, per un brano allo stesso tempo caldo, struggente e rilassante. Altrettanto calda e movimentata è un'altra canzone che la danza la porta nel nome stesso, St.Vitus Dance, un pezzo leggero, estivo, un diversivo hard-blues spicciolo che preannuncia quanto succederà dopo tre album. Il grado di cottura raggiunge la carbonizzazione con Under The Sun, arsa dal fuoco e dall'avanzare sempre più opprimente e violento della frusta del Sabba Nero, sta volta oracolo dello stoner rock (anche più che nell'album precedente) e della commistione stoner-doom(pesante & melodico, più melodico di quanto si possa immaginare), insomma un pezzo che ha cresciuto e nutrito schiere di seguaci. Per me il miglior brano di questi Sabbath di transizione, autenticamente caldo come tutto il lato B di questo quarto volume, anche questo, come il primo pezzo, molto ben strutturato in parti che alternano atmosfere e mood differenti, dalle impennate devastanti alle distese desertiche polverizzate dal riffing inarrestabile e incontenibile del miglior Iommi, tutte parti complementari e incastrate senza forzature, anzi, amalgamate in modo grezzo e spontaneo. Lo stesso paradigma lo si trova nella sottile (sussurrata, come la parola "cocaine") malvagità di Snowblind, che non è ne un lento (ma è una mezza ballata, forse la migliore loro ballata, nell'inciso) ne un pezzo martellante (ma contiene un assolo che è già pieno heavy metal) ne psichedelico (eppure il finale è una delle cose più drogate che i Black Sabbath abbiano potuto concepire, senza contare il testo visionario, sempre un portato di quel tema fondamentale del distacco tra realtà e sogno lucido provocato dalle droghe), ne una concessione commerciale (eppure è la massima sintesi tra lo stile coniato nel giro di un paio d'anni e la melodia).
Ma il cambiamento è anche liberazione, e allora I've opened the door and my mind has been released. E questi Black Sabbath del quarto volume, a prescindere dal fatto che un pezzo possa piacere più o meno di un altro, sono sicuramente dei musicisti più liberi.

John

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