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sabato 31 gennaio 2009

OASIS - (What's The Story) Morning Glory? (1995)



Anno: 1995
Etichetta: Helter Skelter

Line Up:
Liam Gallagher - voce
Noel Gallagher - chitarra solista, voce e pianoforte
Paul Arthurs - chitarra ritmica e pianoforte
Paul McGuigan - basso
Alan White - batteria e percussioni

Tracklist:
1. Hello
2. Roll With It
3. Wonderwall
4. Don't Look Back in Anger
5. Hey Now!
6. Untitled Track
7. Some Might Say
8. Cast No Shadow
9. She's Electric
10. Morning Glory
11. Untitled Track
12. Champagne Supernova

11 agosto 1996, Knebworth: gli Oasis si esibiscono di fronte ad un oceano di 250.000 fan adoranti, il più grande show della loro carriera. Il mondo del rock pende letteralmente dalle labbra dei fratelli Gallagher.

Circa tre anni prima i giovani Oasis riescono a strappare il loro primo contratto discografico suonando per pochi minuti ad un concerto a cui neanche erano stati invitati alla presenza del capocchia della Creation Records Alan McGee, solo dopo aver rischiato di fare a botte col proprietario del locale ovviamente.

Il nome della band inizia a circolare, così come le notizie sulle risse e la vita poco regolare condotta da Liam e Noel. Il tempo di un paio di singoli preparatori e le facce della band di Manchester vengono schiaffate sulle prime pagine di molte riviste specializzate inglesi. Definitely Maybe appare sugli scaffali dei negozi ed è subito un botto a livello di vendita, si parla di circa mezzo milione di copie prenotate prima dell’uscita nella sola Inghilterra. Il singolo Supersonicaprirà invece le porte della gloria negli States. Il successo a livello planetario è un dato di fatto.

Due anni dopo Noel effettua una telefonata verso gli Stati Uniti, dall’altra parte del cavo alza la cornetta un ragazzino che usando un classica espressione americana del tempo risponde “Ehi! What’s the story morning glory?”. Il titolo per il secondo album degli Oasis è servito, il disco, dopo sessioni di registrazioni abbastanza movimentate, pure. Quello che può essere considerato il migliore disco pop/rock degli ultimi 15/20 anni sta per entrare nei lettori CD di mezzo mondo.

Ci penseranno i Blur a tentare di rovinare la festa pubblicando contemporaneamente e battendo nella prima settimana di uscita Roll With It con la loro Country House. Poco male. Il confronto sulla lunga distanza viene stravinto dalla band di Manchester e il motivo è presto spiegato. Con (What’s The Story) Morning Glory? I fratelli Gallagher stilano in 12 tracce il manuale per la perfetta fusione di pop e rock. Il nuovo arrivato in casa Oasis non è infatti l’ideale prosecuzione del già buonissimo Definitely Maybe, quanto piuttosto la creazione di una formula sonora perfetta che va a pescare a piene mani nella storia della musica rock e pop, fregandosene di risultare inedita o innovatrice ma badando piuttosto a raggiungere la perfezione formale che porta l’ascoltatore a rimanere a bocca aperta davanti alla mancanza di qualsiasi minima sbavatura. E allora a chi importa se il disco in questione pullula di citazioni beatlesiane (a partire dagli studi di registrazione di Abbey Road) ed echi di rock più o meno datato. Perché Wonderwall non è soltanto il titolo di un disco di George Harrison ma una delle migliori canzoni d’amore in salsa pop che siano mai state scritte. Dedicata alla compagna di Noel, la sua atmosfera malinconica iscriverà per sempre gli Oasis nel libro dei grandissimi della musica. Così come l’altro colosso: Don’t Look Back In Anger. Rapprsenta oltre che la prima canzone cantata in un album da Noel un monumento al personaggio di John Lennon (basta ascoltare l’intro o guardare il video) oltre che la vera summa dei clichès british del suono Oasis: sezione ritmica mai ingombrante, il genio di Noel che straborda in ogni dove e la caratteristica voce di Liam ad intonare ritornelli da stadio che ti si stampano in testa dal primo ascolto. Tutto il disco si mantiene su livelli altissimi: Hello e Roll With It sono due rock song tirate che rappresentano uno dei pochi richiami al precedente Definitely Maybe mentre Cast No Shadow è una dolce ballata in stile Verve. E un motivo c’è. E’ Infatti dedicata a Richard Ashcroft, amico intimo e mezzo eroe dei fratelli Gallagher. Some Might Say contiene una delle migliori prestazioni vocali di Liam che sfrutta appieno le sue corde vocali risultando il vero mattatore della composizione. She’s Electric non è uno dei classici del gruppo ma nei suoi tre minuti non annoia mai con repentini cambi di ritmo e strizzatine d’occhio ai Kinks sparse qua e là. Hey Now! rientrerebbe nel medesimo gruppo se non fosse che nel finale la chitarra di Noel va a fondersi completamente con la voce di Liam sancendo l’unione perfetta che da vita ora -hey,now- al sogno di quattro ragazzi della working class inglese contrapposto agli snob della City: diventare come Oasis rockstar osannate in tutto il mondo. E a proposito di rock, tra i più tirati della carriera della band troviamo la title track Morning Glory: rock di quelli rumorosi e tirati, storie di droga, alchol e risvegli difficoltosi. Storie di rockstar. A chiudere questo disco cardine degli anni 90 ci pensa infine la ballatona Champagne Supernova. Pop allo stato puro che va a braccetto con la psichedelica salendo e scendendo nei climax raggiunti dalla struggente voce di Liam e dalla chitarra ruggente di Noel lungo 7 minuti che lo stesso chitarrista definisce come "una Stairway To Heaven degli anni '90 senza tutti gli gnomi e quella merda cosmica" mentre io preferisco vedere come il marchio a fuoco conclusivo dei Gallagher sul decennio passato.

Gli Oasis ora sono veramente delle rockstar e il mondo, giustamente, tributa loro l’acclamazione che si deve solo ai grandissimi.

Alessandro Sacchi =KG=

venerdì 30 gennaio 2009

Coldplay - A rush of blood to the head (2002)


Etichetta: Capitol Records
Anno: 2002

Line up:

(vocalist/pianist) Chris Martin
(guitarist) Jonny Buckland
(bassist) Guy Berryman
(drummer) Will Champion

Tracklist:
1. "Politik" – 5:18
2. "In My Place" – 3:48
3. "God Put a Smile upon Your Face" – 4:57
4. "The Scientist" – 5:09
5. "Clocks" – 5:07
6. "Daylight" – 5:27
7. "Green Eyes" – 3:43
8. "Warning Sign" – 5:31
9. "A Whisper" – 3:58
10. "A Rush of Blood to the Head" – 5:51
11. "Amsterdam" – 5:19

Un afflusso di sangue alla testa è indicativo di due eventi: il primo è sinonimo di pazzia, di comportamenti azzardati e sconclusionati, di frenesia mescolata ad impulso, un comportamento primitivo che riflette il motto “carpe diem”. Ma indica altresì la normale azione di pompaggio della preziosa linfa rossa al nostro sistema encefalico-nervoso, una necessaria ossigenazione dei vasi, il fluire del sangue verso la sede delle nostre paure, del nostro ragionamento e di ogni elemento che allo stesso tempo distingue e rende simile l’uomo all’animale. Questa sintetica analisi medica si sposa perfettamente con l’immagine asettica, enciclopedica e scientifica presente sulla copertina del lavoro di Chris Martin e soci. I coldplay sono ormai una realtà la cui fama è interplanetaria, dopo il successo di classifica, pubblico e critica di Parachutes, A rush of blood porta ulteriore fama e denaro al quartetto britannico, che riesce a piazzare ben quattro singoli in classifica, sugli undici brani di cui si compone il disco. Un lavoro ben strutturato, mainstream ma che gode di un’attenzione meritevole e si colloca nell’hall of fame del brit rock. Perché essenzialmente si tratta di rock di matrice inglese, struggente, equilibrato, melodico, orecchiabile e riposante. Quattro validi musicisti, ognuno dei quali capace di stare al suo posto, di collaborare e partorire un album carico di testi significativi, alchimie sonore azzeccate e grande musica. Tutto quanto si regge sul binomio pianoforte – voce, mentre basso, batteria e chitarra accompagnano l’ascoltatore in un viaggio rilassante e maturo come la campagna inglese in autunno. Ogni tanto qualche paesaggio assolato, mentre si attraversano le colline al tramonto, con i loro profili severi e immutabili, eredità di una filosofia secolare e di grande profondità. Politik ha un inizio che ricorda, per certi versi, i radiohead più tranquillizzati, con la voce di Martin che si interroga e avanza richieste dall’esterno dello spazio, cercando di instaurare un contatto con noi per comprenderci ed essere realmente noi stessi, chiedendoci con dolcezza e sincerità di svelare le nostre politiche.

Look at earth from outer space
Everyone must find the place
Give me time and give me space
Give me real, don't give me fake

In my place (videoclip) la conosciamo perfettamente, credo che sia il prototipo di canzone, assieme a The scientist, dei coldplay: un intro creato su tasti di alabastro, che ci culla e ci offre una mano, precedendoci nel difficile camino della nostra esistenza, cercando di individuare le trappole e farci sorridere, mentre sorseggiamo una tazza di the la domenica mattina. God Put a smile upon your face (videoclip) è uno dei pezzi più interessanti, divertenti ed incalzanti di tutto il disco, enigmatico e inquietante, ci trasporta, incuriosendo

Where do we go, nobody knows
I've got to say I'm on my way down
God gave me style and gave me grace
God put a smile upon my face

Evocativo, ci lascia con molte domande e poche risposte, troppi quesiti e altrettanti dubbi, mentre la canzone cresce insieme alla nostra curiosità. Dubbi che verranno, apparentemente fugati in The scientist (videoclip) brano sull’amore e sulle difficoltà di capirlo. Ma forse la soluzione, vagliata, ragionata, analizzata e discusso, è che non ci siano risposte, conta solo viverlo.

Come up to meet you, tell you I'm sorry
You don't know how lovely you are

I had to find you
Tell you I need you
Tell you I set you apart

Tell me your secrets
And ask me your questions
Oh let's go back to the start

Running in circles
Coming in tales
Heads are a science apart

Versi bellissimi quanto sinceri, non si può fare demagogia nell’amore.

Clocks (videoclip) sfugge via nella sua imponenza come il tempo e noi, inesorabilmente, possiamo solo sederci a farci trasportare dal flusso, verso un’altra destinazione. Daylight, Green eyes, a whisper, warning signs, Amsterdam sono l’ennesima conferma della bravura del gruppo, nel creare melodie semplici ed efficaci, a metà strada tra il rock tipicamente english degli anni ’60 e ’70 ed il cantautorato di Neil Diamond, Cat Stevens, sir Elton John, Joe Cocker, Dylan e le melodie alla Bacharach.

Un disco da apprezzare, da ascoltare con leggerezza e passione. Chi l’ha detto che la semplicità non sia la chiave per vivere meglio?

Sgabrioz

giovedì 29 gennaio 2009

Death Cab For Cutie - Transatlanticism (2003)


Anno: 2003

Etichetta: Barsuk

Tracklist:
1. The New Year
2. Lightness
3. Title and Registration
4. Expo '86
5. The Sound of Settling
6. Tiny Vessels
7. Transatlanticism
8. Passenger Seat
9. Death of an Interior Decorator
10. We Looked Like Giants
11. A Lack of Color

Esistono vari tipi di album: alcuni ottimi, altri discreti, altri ancora mediocri.Un gruppo veramente ristretto si può vantare di appartenere alla cerchia dei capolavori, quelli che nei voti raggiungono il 10 perfetto. Transatlanticism è uno di questi. L’apice più che di un movimento (l’alternative/indie rock americano dei vari Built To Spill, Rooney, Onelinedrawining e compagnia) di un certo modo di intendere la musica in maniera semplice, sincera, col cuore, heartfelt direbbero gli ammerigani. Questo non vuol dire che non sia curata, tutt’altro. In questo disco tutto è fatto alla perfezione: gli arrangiamenti sono curatissimi, la voce non sgarra mai,le chitarre graffiano quando devono e ti cullano nei momenti giusti, l’elettronica fa spesso capolino richiamando qua è la i Postal Service, su tutto la splendida voce di quel genietto che di nome fa Ben e cognome Gibbard.Musica fatta col cuore si diceva, musica intima. La situazione ideale per l’ascolto del disco è abbassare un po’ le tapparelle della cameretta, distendersi sul letto e infilar le cuffie. A chi è mai capitato di vedere OC e assistere alle paturnie di Seth Cohen saprà bene cosa intendo.E allora lasciamoci cullare da quest’album che, come detto prima, sa è essere potente quando serve. Così The New Year ci si para davanti nella la sua malinconica disilussione:

so this is the new year.
and i don't feel any different.
the clanking of crystal
explosions off in the distance

La stessa potenza espressa da We Looked Like Giants, struggente quanto acida, forse la canzone più tirata mai composta dalla band di Bellingham:

god damn the black night with all its foul temptations
i've become what i always hated
when i was with you then
we looked like giants in the back of my grey subcompact
fumbling to make contact
as the others slept inside
and together there
in a shroud of frost, the mountain air
began to pass through every pane of weathered glass
and i held you closer than anyone would ever guess

Sprofondiamo in un mare misto di tristezza, malinconia, e piccole lacrime che scorrono lungo il viso. Ma ci vuole poco per asciugarle, bastano semplici bozzetti come Lightness e Title And Registration. Ci fanno tornare svegli e attivi, per riflettere sulla nostra vita e su cosa inspiegabilmente è andato storto o meglio del previsto, perché la vita ti sorprende sempre e comunque, in positivo e in negativo, lasciandoti sveglio la notte a riflettere: and here I rest where disappointment and regret collide, lying awake at night.
C’è un momento per piangersi addosso e un momento per ridere della propria esistenza, lasciarla scivolare via veloce e affrontarla con un sorriso, i Death Cab lo sanno. The Sound Of Settling è irresistibile nella sua spensieratezza, è facile immaginarsi d’estate, sopra una bella decappottabile, il solo splendente, il vento che ci accarezza il viso e le risate degli amici che riempiono l’aria. Sulla stessa lunghezza d’onda è Expo ‘86 che chiudendo gli occhi rimanda alla primavera e all’aria frizzantina che non può non mettere di buon umore.
Transatlanticism è questo, un misto di emozioni e di contraddizioni, canzoni perfettamente orchestrate e altre appena sussurrate, malinconia e gioia allo stesso tempo, calma e tensione. Di esempi ce ne sono tanti: Passenger Seat, Death Of An Interior Decorator, la stessa title track.
C’è però un ambito in cui il gruppo, stacca decisamente la concorrenza, quando Ben Gibbard decide di dare libero sfogo all’unisono alla sua anima e alla sua chitarra acustica, solo qualche effettino di accompagnamento. Ecco A Lack Of Color: allo stesso tempo il momento più scarno e più alto del disco. Proprio per questo riesce a toccarti dentro, e tu non puoi fare niente per evitarlo, sei senza difese, e allora ti abbandoni alla sua dolcezza:

if you feel discouraged
when there's a lack of color here
please don't worry lover
it's really bursting at the seams
from absorbing everything
the spectrum's a to z
this is fact not fiction
for the first time in years

Questa è la realtà, non è finzione, per la prima volta, forse l’ultima, chissà. L’importante è esserne coscienti, aprire le porte del nostro cuore e lasciarsi andare. I Death Cab sono qui per aiutarci. Transatlanticism è qui per aiutarci. E’ la chiave che apre la porta ai nostri sentimenti più intimi e ci mette a confronto con essi.Dicevo prima che quest’album merita un 10 tondo tondo, beh…forse è anche poco. This is fact, not fiction.

Alessandro Sacchi =KG=

domenica 25 gennaio 2009

Death Cab For Cutie - Plans (2005)


Anno: 2005

Etichetta: Atlantic

Tracklist:
1. Marching Bands Of Manhattan
2. Soul Meets Body
3. Summer Skin
4. Different Names For The Same Thing
5. I Will Follow You Into The Dark
6. Your Heart Is An Empty Room
7. Someday You Will Be Loved
8. Crooked Teeth
9. What Sara Said
10. Brothers On A Hotel Bed
11. Stable Song

Pop. Parolina che ai più mette addirittura i brividi. Roba facilotta per altri. Non se fatta come si deve, mi viene da rispondere. Plans è proprio questo, un ottimo disco pop.
Dare un degno successore all’epocale (perché per l’indie rock lo è) Transatlanticism sul suo stesso campo era impresa disperata. Il binomio magniloquenza/semplicità disarmante che caratterizzava l’ingombrante predecessore di Plans viene allora messo alle spalle. La costante però è sempre quella: la classe. Ben Gibbard e soci compiono un altro passo avanti lungo una carriera invidiabile, caratterizzata da soddisfazioni sempre maggiori e lavori di spessore non indifferente. Grazie allo status raggiunto il gruppo non teme minimamente di confrontarsi (per l’ennesima volta) con quella famosa parola: pop. E il risultato è ancora una volta un successo. Magari il disco si rivela meno immediato di altri targati Death Cab, ma è il segno che contraddistingue le grandi opere l’iniziale difficoltà a farsi assimilare. E comunque non si parla di nulla di arzigogolato, anzi. Prendiamo i due momenti migliori dell’album: Soul Meets Body e I Will Follow You Into The Dark. Nella prima batteria, chitarra acustica e spruzzate di tastiera si fondo dolcemente creando un tappeto sonoro magico, in cui la vocina di Ben Gibbard va a nozze. L’anima si fonde al corpo. La melodia riempie l’aria e we feel what it’s like to be new. Nella seconda è l’accoppiata voce – chitarra acustica a farla da padrone. Il risultato è disarmante nella sua semplicità. Una struggente ninna nanna sull’amore, quello più puro, quello che ci fa ricongiungere anche dopo la morte, quello che ci mette paura. Sì perché quando mettiamo il nostro cuore nelle mani di qualcun altro la paura ci lascia senza fiato, tanto quanto l’amore che proviamo: fear is the heart of love.
Basterebbero questo due canzoni per promuovere a pieni voti l’album, ma i DCFC non si risparmiano, disseminando qua e là perle che si lasciano apprezzare pian piano. Dalla fighettina Crooked Teeth -colonna sonora perfetta per un party a base di Martini, capelli leccati e polo appena stirate- alla cadenzata Summer Skin. Sentite ancora il profumo che emanava la pelle abbronzata di quella splendida ragazza conosciuta in spiaggia la scorsa estate vero?
E come dimenticarsi di Someday You Will Be Loved? Avete appena lasciato la vostra morosa, vi sentite delle merde, non sapete come fare per farla stare meglio, a lei ci tenete davvero, le lasciate un post-it prima di andarvene per l’ultima volta…

You'll be loved you'll be loved
Like you never have known
The memories of me
Will seem more like bad dreams
Just a series of blurs
Like I never occurred
Someday you will be loved

...che cuori d’oro! Potrei andare avanti ancora, citare le varie Your Heart Is An Empty Room e Marching Bands Of Manhattan, finire la tracklist, ma non lo farò. Non lo farò perché voglio lasciarvi il piacere di ascoltare quest’album come si legge un bel libro: sfogliandolo poco alla volta, sentendone l’odore delle pagine, tenendolo fra le vostre mani. Questo è il destino dei grandi classici, e solo i grandi gruppi scrivono grandi classici. I Death Cab di Ben Gibbard lo sono.

Alessandro Sacchi =KG=