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sabato 10 gennaio 2009

Green Carnation - Journey to the End of the Night (1999)


Anno: 1999
Etichetta: Prophecy Productions

Tracklist:
1. Falling Into Darkness
2. In The Realm Of The Midnight Sun
3. My Dark Reflections Of Life And Death
4. Under Eternal Stars
5. Journy To The End Of The Night Pt. 1
6. Echoes Of Despair Pt. 2
7. End Of Journey? Pt.3
8. Shattered Pt. 4

Journey To The End Of The Night è il disco d'escordio dei Green Carnation, ma è anche l'album del loro come back, perchè la band si forma la prima volta dieci anni prima, nel 1990, ma dopo un demo si scioglie e resta appesa per 10 anni, durante i quali il cantante, Tchort diventa un eroe del metal scandinavo, passando dall'esperienza con gli Emperor ai Carpathian Forest e Blood Red Throne; mentre Christian "X" Botteri (chitarra) e Christofer "CM" Botteri (basso) diventano il nucleo degli In The Woods..., nei quali potranno sperimentare suoni che andranno ben oltre il background black metal originario, e che saranno la base per la nuova esperienza Green Carnation, che infatti nel 1999 si rifondano nel segno della sperimentazione, lontani anni luce dal black metal del demo d'esordio.
A livello strumentale e compositivo siamo vicini ai territori My Dying Bride, mentre Rx Draumtanzer, la voce principale, ricorda sfacciatamente Warrel Dane dei Nevermore. La band si avvale della partecipazione di ben 5 vocalist a rotazione, Linn Solaas, Synne Soprana, Vibeke Stene, Atle Dørum tra cui ben in rilievo Melena dei Trail of Tears, che nell'album fa molto, con quel suo importante contributo quasi operistico/melodrammatico nel cantare e recitare il dolore. C'è un grosso lavoro alle tastiere, nell'intento di riprodurre atmosfere di derivazione Pink Floyd, prese e pompate di metal, suggestive e fredde, perchè è la freddezza un elemento costante anche dei testim cupi e depressivi, in un concept che è caratterizzato dal tema dell' inabissamento.
L'album è composto principalmente da 4 suite(se escludiamo intro e la tripla coda dell'album), per un totale di 70 minuti di poesia, intensità emotiva, densità musicale e variazioni stilistiche così ben amalgamate da sembrare omogenee e permeate l'una dell'altra, come parti di un unico discorso fatto di momenti legati ad atmosfere rarefatte, passaggi sperimentali o intermezzi strumentali psichedelici; e atmosfere pesanti vicine al doom più epico e classicheggiante, depressivo, progressivo, ma anche vicine al doom più nero e, sotto certi aspetti, d'avanguardia. 4 suite che si apprezzano se ascoltate tutte d'un fiato, senza soste ne tentativi di isolare in qualche modo i singoli pezzi, anche perchè sembrano più rilevanti le graduali e sfumate progressioni che si avvertono in una singola suite, che le differenze rilevabili globlamente tra una e l'altra. In The Realm Of The Midnight Sun inizia già con tre immagini di "perdita", "Black lights, shattered dreams, broken hope", ed è l'inizio del viaggio negli abissi, un calarsi introspettivo e solitario nei propri dolori e nelle proprie paure; nella narrazione l'elemento della luce è fondamentale, inquanto simbolico di uno status esistenziale spesso rappresentato col riferimento ad elementi naturali(the wind nel secondo verso... the storm nel terzo verso... the moon nel quarto verso... e via dicendo), tutte metafore chGiustificae in realtà sono indice di una concezione panteistica della natura, una natura ostile e crudele, una specie di dio cattivo:
world have casted me and pushed me down into a darkness
where only cold and fear can reach me
i am alone, even my tears leave me and dissapear
poi l'immagine del labirinto, e del tracciato, che porta ad un oceano maligno (ed ecco un altro elemento naturale, anche esso preso e distorto in una accezione negativa, nella fattispecie, simbolo di una condizione di sofferenza che avvolge e annega l' io narrante):
stumbling through the vast labyrinth of sadness
the track i follow, lead me down to an ocean of sorrow and pain
the way back to the light is too long and i dont have
the strength enough....
come vedete è ripresa anche la figura della luce, dopo che anche il titolo stesso del brano contiene la parola sun, la luce per eccellenza, poi declinata in contesti e sfondi diversi: froozen light... northern light....
Il brano per i primi 8 minuti trascina una atmosfera livida e desolata, ben rappresentata dalla melodia ripetitiva e dall'impressionistico uso del cambio di tempo da parte del batterista; alla voce c'è Malena nella maggior parte del pezz, in una prestazione siderale, in tutti i sensi; tutto fluisce lento ma inesorabile, la musica si trascina e trascina, avviluppa e risucchia, fino all'ottavo minuto, poi tutto si fa gradatamente più violento ed aspro, con richiami all'epicità black in certi passaggi, mentre Malena raggiunge i suoi picchi più alti, sottolineata dalla chitarra solista e dall'infittirsi e appesantirsi del drumming, fino al duetto con Rx, negli ultimi intensissimi 4 minuti, con una straordinaria coda percussiva basso-batteria di 2 minuti, che è uno dei momenti strumentali più ricercati dell'album, posto nel finale del brano, come firma o come epitaffio, o meglio ancora, come prefigurazione di quello che sentiremo nella seconda suite, My Dark Reflections Of Life And Death, più lunga e ancora più varia e ricercata della prima, ed ancora più carica di suggestioni, come nella lunga intro acidissima di effetti e tinteggiata di synth, per tre profondissimi minuti sul finire dei quali si inserisce gradualmente la batteria, in uno splendido lavoro solistico, che prelude ai tanti intermezzi dal gusto vagamente jazz che seguiranno all'interno della magnifica suite. Il riff di Tchort fa esplodere il pezzo, al quarto minuto, poi dopo una serie di contorsioni ipertecniche che fanno dialogare e alternare carezze di tutti gli strumenti, come in una danza tribale, si sviluppa il cantato possente caldo, in opposizione ad una musica freddamente tecnicistica che sottende un'emotività sotterranea quanto profonda e penetrante. I 17 minuti alternano,in andamento sinusoidale un susseguirsi di idee, trovate, salite e discese, esplosioni elettriche e inabissamenti strimentali lisergici, passaggi atmosferici delicatissimi e fragili, tutto ingegnosamente studiato in una intelaiatura paurosamente progressive, quel progressive fatto bene, che ingloba la tradizione e il senso del classico, pur permeando la modernità tra le sue fitte ed intricate spire. A livello contenutistico c'è sempre il tema della sofferenza, pain è proprio la parola che apre il primo verso; poi c'è il tema della colpa, in relazione all'identità dell' io narrante ed ai fatti che lo riguardano, e in relazione alla sofferenza stessa, colpa--->sofferenza per espiare la colpa:
Judge me for who I am
relieve me for what I am
Remember me for what I was
Forgive me for what I became
Where shadows speak of memories
Poi, sempre alla relazione colpa--->sofferenza si aggiunge un altro elemento: la pena. Lo stare al mondo, per l' io parlante è una specie di continua e infinita carcerazione "I stand alone in my dark and lonely world". Ma l'uscita c'è, la luce c'è, solo che in questa confusione e in questa pesante oscurità, tutto appare angusto e opaco:
Shserpent of lust and lie, where will my path go?
Sould I be tempted by the light or should I remain in darkness
Why all this sorrow, why all this confusion?
I was one of thee, why am I left behind?
Under Eternal Stars è un pesantissimo quarto d'ora di doom metal puntellato di ampi passaggi violinistici di Leif Christian Wiese, e sostenuto da un tappeto percussionistico pieno di barocchismi, sul quale si muovono chitarre devastanti, questa volta vicine alla tradizione black norvegese, sembrano quasi un lamento, o il vibrare del vento e della pioggia, sugli alberi e tra le piante, come è anche sugerito dal testo "Soft rain falls silent down from a black nightsky / darkness which I have given my lonely life to / lay around me like a heavy cloud..." e, più avanti "Cold winds of the fall blow from east". I cori e gli acuti di Malena sono taglienti, e colpisono alle spalle, quando meno te lo aspetti, e conferiscono grande fascino ad un pezzo solo apparentemente plumbeo e tetro, visto che non è raro intravedere spiragli di luce e di serenità all'orizzonte, in quei tanti intermezzi, che sono propedeutici a nuove e sempre più aspre cavalcate metalliche.
L'immagine-tema dell' oscurità/notte in parallelo con l'idea della morte viene spesso ripresa:
Everything is beautiful, like death is beautiful
sometime I shall wander here in the realm of darkness
with my princess by my side
dressed in the colours of the night
like I am dressed in the colours of the night...
Da notare inoltre, come vedete nel verso di sopra, la personificazione della notte, sempre per quell'atteggiamento panteistico-panico presente un po ovunque. Poi, verso la fine, sembra quasi esserci un rapporto erotico con l'oscurità: "I enter the embrace of the fogwoods / Passionated by darkness".
Journey To The End Of Night si apre parlando ancora di vento che soffia, stelle che brillano di notte, e immagini di morte e desolazione e, giunti alla fine del concept, capiamo che non c'è un solo personaggio da ricordare, non ci sono relazioni, storie, evoluzioni, non c'è tempo e non c'è uno spazio ben definito, c'è solo un volto abbozzato e una natura molto generica e indefinita, quasi fiabesca. Tutto questo pone l'opera dei GC, fuori dalla storia, esente da qualsiasi critica che intenda riporla in un preciso contesto, perchè non c'è contesto: c'è solo una serie di immagini oscure e lugubri, ridondanti, quasi a ribadire verso dopo verso e brano dopo brano il solito quadretto romantico palpitante di emozioni che scottano sotto il ghiaccio. Immagini di sepoltura, tombe, distruzione, senso di strangolamento, e ritorna il tema della colpa, insieme a messaggi lugubri "may the children of the night take your soul / I wish you luck on your long travel, to the end of the night... / Your loss will be remembered / Your fall will be revenged".
L'arpeggio introduttivo e i rari intermezzi di basso (spesso in primo piano e protagonista nel brano) sono gli unici squarci nel terribile wall of sound eretto in questo funereo brano, dove merletti e diversivi sono ridotti all'osso, per lasciar spazio alla pura cattiveria, tra passaggi thrashosi e lunghi momenti depressivi, tutto all'insegna del nero che più nero non si può. Seguono altri 3 brani, che sono la seconda, terza e quarta parte della suite, che se considerata interamente arriva ad un minutaggio di 20 minuti, e che si è voluto inspiegabilmente frammentare (compiendo una scelta dalla dubbia coerenza, visto l'album successivo, dove ci sarà un solo brano da 60 minuti...) in 4 pezzi di cui uno principale, ed altri 3 di cui solo Echoes Of Despair ha senso, inquanto coda strumentale del brano principale, fatta da echi e risvolti acidi floydiani sin dal titolo del pezzo, fino al finale quasi space, tutto in 2 minuti e mezzo molto ben studiati... diversamente dai 2 pezzi successivi (il gran finale...e il finale del finale) in cui c'è un caos che non ha nessun senso ai fini dello sviluppo di un brano già perfetto e completo alla fine della prima coda strumentale. Non c'è il minimo senso della misura, e non mancano i pasticci nel finale, ma al dilà di questo si tratta sempre di un ottimo album, non di certo di facile assimilazione ne di facile ascolto, ma sicuramente un perfetto punto di inizio, a detta dello stesso Tchort, per addentrarsi nel fantastico mondo dei GC.

John

martedì 6 gennaio 2009

In The Woods... - Omnio (1997)



Anno: 1997
Etichetta: Misanthropy Records

Line-up:
Jan Kennet Transeth - Voce
Synne Larsen - Voce
Christian Botteri - Basso
Christopher Botteri - Chitarra
Christer Andre Cederberg - Chitarra
Anders Kobro - Batteria

Guest: The Dust Quartet : violini, viole, violoncelli/ Arve Lømsland : keys

Tracklist:
1. 299 796 km/s
2. I am you flesh
3. Kairos!
4. Weeping willow
5. Omnio? - Pre
6. Omnio? - Bardo
7. Omnio? - Post

Non giriamoci attorno, un album è e diviene grande quando è capace di trasmettere emozioni.
Sembra semplice, ma sfido a comporre musica che arrivi al cuore, dando il via a un irrefrenabile valzer di sentimenti. Questi gruppo di giovani norvegesi, nel 1997, dal bizzarro nome di In The Woods... riuscì nell’intento, indicando una nuova via per il giovane movimento avantgarde, capace di recidere il cordone con il black metal, a favore di una visoni musicale più ampia e di respiro.
In primis, musica che fa viaggiare e porta indietro nel tempo, è questa la prima qualità di questo album straordinario, uno dei grandi capolavori del metal (e oltre mi azzardo ad affermare). Composizioni magnifiche suonate da musicisti straordinari che partiti suonando un black metal influenzato dal folk e dal prog, sono riusciti ad amalgamare in maniera sublime le influenze più disparate. E terzo, ma non in ordine di importanza la coppia Jan Kenneth Transeth-Synne Larsen, capaci con le loro voci magnifiche di aprire il cuore di chi li ascolta, la teatralità del primo (che abbandona del tutto lo scream se non per pochi secondo nel mezzo della seconda traccia) e gli acuti della seconda.
Parte 299 796 km/s e si capisce già che questo è un album speciale.
Un violoncello disegna arabeschi lontani e solitari, crescendo inesorabilmente verso un riff massiccio sopra il quale si innalza un breve ma intenso solo, lì, ad inizio song, a testimonianza dell’eclettismo della band. Riff distorti danno il la alla prestazione combinata di Jan e Synne, evocativi come pochi altri, si rincorrono e scavalcano, cantando in una sincronia perfetta, narrando di infinito e tempo, della vita sulla terra e della nostra dipartita, tutto scandito dalla velocità della luce. I ritimi salgono e la song si fa rocciosa, veloce, riff pieni e grezzi, macinati dalla coppia Botteri-Cederberg, chiusi da un acuto della bionda singer. Ed ecco che si apre un sipario sognante nuovamente costruito con violini magnifici, due minuti dove è lecito perdersi tra le note, e se non bastasse entrano delicati arpeggi di chitarra acustica leggermente flangerata, che si fondono e corrono via, quando rientra la coppia vocale, che pare parlare, l’uno con l’altra in una danza intima ed evocativa, che viene interrota solamente dal riff massiccio che spazza via dubbi e malinconia, effettato, tagliente, mentre Andrei alla batteria scandisce lentamente il tempo. Il duo di chitarristi disegnano architetture gemelle di chitarra che si intrecciano donando eticità al pezzo, come se le doti dei due singer non bastassero, cinque minuti di dolce sofferenza, prima che si apra una sfuriata al limite del black melodico, con la doppia cassa di Kobro che veloce si disimpegna tra i ricami della canzone, mentre Synne alza il suo tono vocale, contrapponendosi alle tonalità basse e cupe di Jan. E un preziosismo solo finale chiude un quarto d’ora di canzone bella come poche altre.
E d’impatto si apre I Am Your Flesh, un mid-tempo leggeremente uppato, dove a far da padrone sono la prestazione vocale immane di Jan e il drumming preziosismo di Andrei, vario e intelligente, anche nei momenti di quiete, dove le distorsioni di Botteri si fondono con il basso possente del fratello (naturalmente i nomi sono d’arte), spalancando intensi minuti di prog floydiano, dove si presentano chitarre appena pizzicate, distorsioni lontante e leggere tastiere di sottofondo, manifestando così l’amore della band nei confronti della band di Waters. Vero punto di riferimento.
Riff leggeri ipnotici supportano il crescendo vocale di Jan, che pare un novello Romeo per il pathos che mette nella sua prestazione. E in raptus di dolore caccia via con uno scream lancinate tutta la sua rabbia, alzando i ritmi, colorati di riff di derivazione estrema ma tenendo sempre in mente la melodia, come nelle armonizzazioni finali della song.
Arpeggi saltellanti e si apre Kairos!, che ben presto si mostra in tutta la sua essenza, un mid-tempo roccioso dal sapore doomish, sopra il quale si innalza la prestazione superba di Synne, eterea e calda alla stesso tempo, mentre bravi break acustici cospargono la canzone di classe cristallina, mentre la singer apre squarci profondi nell’animo di chi la ascolta:


“The moment that your senses play a part
-when all of them caress a new impression
Somewhere deep within your heart
like qualities of permanent obsession

Can you conquer your emotional delay
can you draw tomorrow's history today
can you feel the tide is turning
can you overcome the yearning
-or will you blindly obey?

Break through-embrace the light of”



Weeping Willow si apre progressive come non mai, intrecci di chitarre acustiche e feedback lontani, le magnifiche tastiere di Arve che stendono un pulitissimo tappeto sonoro, preludio per gli straordinari giri di chitarra che si aprono a elevare i due vocalist, che conducono le danze in toni cupi, mentre lontano si odono piccoli tocchi di piano. La song cresce costante con riff incessanti e drumming preciso di Andres, che cesella la song in maniera onnipresente, mentre un susseguirsi di quiete e maestosi crescendo si fanno largo per i dodici minuti del componimento.
E ora arriva la suite di Omnio, divisa in tre parti, ventisette minuti dove la band mette in evidenza tutte le sue potenzialità enormi.
La inziare è Omnio?-Pre, aperta dalla commistione di keys, arpeggi acustici e violini, in una magniloquenza che ricorda le parentesi raffinate dei 3rd And The Mortal. Jan sussurra del suo cammino guidato dalla vista di profondissimi occhi blu. E i ritmi crescono inesorabilmente, un crescendo acustico che si tramuta in un lunghissimo solo elettrico, prima distorto e poi limpidissimo, mentre Jen mostra a tutti l’estensione della sua voce incredibile, invocando una musa lontana (Synne) a svegliarlo dal sonno nel quale è caduto. Un teatro psichedelico si apre per alcuni secondi, che chiude i battenti e riporta verso atmosfere gotiche di rara fattura.
La musa Synne non è da meno con la sua voce corale toccante e punitiva, un cammino di dolore.
Un solo, un break acustico e un nuovo crescendo, altalena di emozioni.
I sei minuti di pischedelia pura di Omnio?-Bardo sono un tributo palese ai primissimi Pink Floyd e ai King Crimson di Islands, atmosfere dilatate, quasi ambient, che crescono con effetti di tastiere, arpeggi, e sfociano in un solo lungo e intenso.
Omnio-Post? Chiude questomagnifico viaggio tra le sabbie del tempo e dello spazio, aperto da un solo di piano e dalla voce di Synne, davvero toccante, profonda, calda, piena.
Ed ecco che i ritmi si alzano per l’ultima volta, riprendendo la musicalità di Pre, con un Jen che a briglia sciolta sciorina una prestazione vocale da incorniciare, ancora migliore della prima della tiade, dinanzi alla quale ci si può solo inchinare, come d’obbligo dinanzi a un capolavoro musicale di questa portata, manifesto di una band unica nel suo genere.

Neuros