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giovedì 5 febbraio 2009

R.E.M. - Monster (1994)



Anno: 1994
Etichetta: Warner

Tracklist:
1.What's The Frequency Kenneth?
2.Crush WIth Eyeliner
3.King Of Comedy
4.I Don't Sleep I Dream
5.Star 69
6.Tongue
7.Strange Currencies
8.Bang And Blame
9.I Took Your Name
10.Let Me In
11.Circus Envy
12.You

Un album particolare questo "Monster", che più di ogni altra uscita degli REM è riuscito a spaccare il pubblico vecchio e nuovo.

TESI #1
Monster è L'album delle distorsioni, del riverbero, della pesantezza, della claustrofobica chiusura in se stessi, è un album perverso e pieno di pensieri scomodi e mezze confessioni inconfessabili, un disco confuso ed agitato, che risente di episodi che poi espisodi non sono, come la morte di Kurt Cobain. Gli REM vengono fuori dalla forma opprimente di Automatic For The People, che aveva ingessato la loro anima rock, ne aveva mediato e diluito il messaggio in una serie di accidenti e corpi estranei, mentre Monster è il loro lavoro più pesante, non il più duro e aspro, ma sicuramente il più pesante, fondamentalmente lento ma dissonante, difficile e ruvido, una pietra miliare del rock duro anni novanta. Brano emblematico: "What's The Frequency, Kenneth?", che è in pratica una dichiarazione di guerra di un Peter Buck che prende la rincorsa e fa il suo grande ritorno a suonare ad alto volume, e spalanca il disco con un blues grezzo e distorto, un macigno. Farà furore dal vivo ed incarnerà il gusto delle nuove generazioni, oltre il rock "aldulto" dei due album precedenti, oltre l'attivismo dell'asse Document-Green ed oltre il post-punk-folk underground della prima fase. "King Of Comedy" è la prova di come non ci sia un semplice appiattimento alla forma canzone grunge, perchè oltre alla chitarra tagliente e funky che non fa altro che frustare in modo sincopato, c'è un Bill Berry che costruisce ritmiche squadrate, quasi dance, un po dalle parti degli U2 dei primi anni novanta, con tanto di cantato che rasenta l'hip hop.

TESI #2
Monster non è altro che il prodotto facile di un momento di facile vendita di certe immagini (appetibili ai teenager di quella generazione) di certi testi (non impegnati, non romantici, ma sempre angusti e perversi, come quelli dei Nirvana) e certi suoni (non adulti come sembrava nella piega che stava prendendo la carriera della band, ma terribilmente somiglianti a quelli in voga a metà anni novanta). Un passo falso insomma, che infatti fu cassato senza rinvio dai critici, diversamente dall'album che lo seguirà, sicuramente più sperimentale, ma che diversamente questo non avrà lo stesso appeal presso le masse (e questa è la prova del nove, che conferma la suddetta tesi). L'ospitalità data a Thruston Moore, chitarrista dei Sonic Youth, in "Crush With Eyeliner" è la prova dei salti mortali che la band fa per sembrare alternativa a tutti i costi, e che per appesantire e rincarare la dose massiccia di distorsioni ha bisogno di doppiare il baccano di Peter Buck, tra l'altro supportando il peggior Michael Stipe del decennio, in questo pezzo, completamente prosaico e quasi irriconoscibile, preso ad apparire tormentato più che ad essere quel grande interprete che è sempre stato. Una prestazione vocale blanda insomma, sommaria, figlia di un dover-essere sbilenco più che di una coscienza rock vera e propria. Le pulsioni sessuali di "Star 69" si traducono di fatto in un pezzo rock stridente e tirato al massimo, un crescendo che si condensa e resta costante in tutti i tre minuti e poco più, scopre tutte le carte ben presto e non si sviluppa drammaticamente come i vecchi pezzi della band, non c'è sentimento, non c'è una apprezzabile cura scenica, ma solo una violenta sovrapposizione di immagini e musica dalle tinte molto forti. La voce di stipe è così effettata ed i testi, così trascurabili, che non si capisce nulla e non si vuol fare capire nulla, le parole di increspano e vengono ripetute fino alla nausea per sopperire ad un vuoto creativo che, al dilà della ripresa rock, ha ben poco altro per riempire tre minuti.

PENSO CHE LA REALTà SIA UN'ALTRA
Fermo restando il fatto che non si tratta di un album fitto di capolavori, e fermo restando che non si discute la presenza di limiti della proposta di Monster e della facilità con cui poteva essere trasmesso in radio alla sua uscita, si deve anche ammettere che la seconda tesi è di per se troppo severa, per diversi motivi:
1) gli REM non sono di certo gli ultimi arrivati,e c'erano prima della generazione di Seattle, quindi il loro ritorno nel panorama alternativo non è in realtà un ritorno vero e proprio, ma una sintesi, oppure una pura e semplice esplicitazione di quanto nell'album precedente era ermeticamente rinchiuso e sublimato in forme finemente pop ma anche limitative per l'estro e per l'energia degli REM.
2) parte dei pezzi che troviamo in Monster non è altro che uno scarto delle sessions precedenti, quindi in realtà questo non sarebbe l'esatto opposto di Automatic For The People, ma anzi, una sua conseguenza, l'altra faccia di una stessa medaglia. Monster è la valvola di sfogo per le canzoni impresentabili in Automatic For The People, una valvola di sfogo sia creativa che umana, che per ovvie ragioni adesso doveva essere azionata, era il momento di uscire, venire fuori, e in questo senso la retorica dell'avance sessuale non è altro che una metafora della forza libidinosa e liberatoria del rock che indaga le chiusure e le cesure del soggetto rispetto al resto del mondo, per poi prenderle e rigirarle in vere e proprie esplosioni, come polluzioni notturne, perchè poi Monster è un album veramente notturno, come il precedente (primo punto di somiglianza), e non è che sia poi così leggero e scrostato, anzi, quelle che prima erano le pesantezze dell'arrangiamento d'archi ora sono convertite i pesantezze portate dalle distorsioni di Peter Buck e Mike Mills (secondo punto di somiglianza). Qualitativamente non sono più scadenti i singoli pezzi, sono solo distanti dal sound rigoroso e classicheggiante di Automatic For The People, ma il nocciolo duro che vi sta dietro è lo stesso, e in qualche caso, la differenza delle proposte si assottiglia. Se prendiamo "Tongue", per esempio, vediamo che si tratta di un soul rock singolare e pieno di fascino, Stipe effettivamente poco riconoscibile, tutto in falsetto, perchè questo per Stipe voleva essere un album di vacanza, un album di eccezioni e di uscita dagli schemi del suo consueto suolo nella band. Per quasi tutto il pezzo è tutto incentrato su voce e organo, come su Automatic For The People. Poi nel finale c'è un Buck solista sporchissimo, ma neanche questo è una novità rispetto ad Automatic For The People. Il brano sembra solo più atipico e meno rimaneggiato, istintivo, con poca cura e attenzioni, sembra gettato su disco una notte, quasi di nascosto. "Strange Currencies" riprende in modo ancora più netto, il passato, facendo il verso ad "Everibody Hurts".
3) è pur vero che ciò che domina l'album è un vortice di torbide pulsioni e sensazioni, ma una "I Don't Sleep, I Dream", anche se assorbe le istanze del rock di Touch Me, I'M Sick di Mudhoneyiana memoria, bisogna ammettere che innanzitutto le visioni distorte e materialistiche sul sesso c'erano già nella più che allusiva "Star me kitten" contenuta nell'album precedente, allora forse non c'è tutto questo baratro tra Automatic For The People e Monster. Inoltre, il pezzo è tutt'altro che di facile assimilazione allo stile grunge (se è mai esistito uno stile grunge), perchè è elettrico ma suonato con delicatezza, delle avances sessuali in punta di piedi, un tappeto che si srotola lentamente in una cantilena sussurrata e un po pregata in falsetto, in cui si inserisce nella struttura molto Neilyounghiana, un pianoforte che impreziosisce e capovolge il tutto.

INCONTINENZA E CONFUSIONE
Se Automatic For The People è l'album del contegno, Monster è un disco incontenibile, sia nei suoni, sia nelle istanze che ne vengono fuori, e alla fine questo è rappresentato anche a livello compisitivo, poichè ora c'è un pezzo energico e possente come "Bang And Blame", emblema del maggior dinamismo di Monster, tutta trascinata da Mike Mills, con il suo basso carichissimo, lanciato come una zappa nel terreno, una canzone che non avrebbero mai potuto comporre gli REM del passato e neanche (forse) quelli del futuro. Invece di sprofondare lentamente, come i brani di Automatic For The People, questi bruciano di vita, pompano sangue, sputano fuoco, suonano assolutamente attuali e questo è già un pregio enorme, senza tra l'altro essere mai una copia dei Nirvana o di altri gruppi che spopolavano. Questa è la linea, fortemente chitarristica, di "I Took Your Name", che gioca con l'identità, confonde le carte, parla di confusione e di crisi, come confusa e raggelata sotto false spoglie è la voce di Stipe, ancora intento a giocare a nascondino, sotto i giochi pirotecnici di Buck che fa letteralmente esplodere la sua chitarra, tra suoni spaziali e simulazioni d'incendio.
"Let Me In" è un intenso ed ermetico inno rock privo di batteria ma che poggia su un organo e su un accordo di Buck. Un brano cinematografico, introspettivo, cantato come faceva il Micheal Stipe che tutti conoscevamo, ma qua l'interpretazione si poggia su una ventata di decibel che si pongono a contrasto, un contrappeso di distorsioni, come le volute sbavature al confine col noise di "Circus Envy", una motosega schiantata contro i timpani. La tempesta viene raccolta ad imbuto e riversata nel pezzo che meglio sintetizza il versante melodico e sentimentale a quello più aggressivo e palpitante di brividi rock, "You", ancora un pezzo avente ad oggetto le relazioni di coppia colte da mille contraddizioni e muraglie di cose dette e non dette, segreti che non possono essere svelati e verità che svaniscono nell'illusione e nella confusione, come tutto il resto, infondo.

John

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