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lunedì 12 gennaio 2009

Green Carnation - A Blessing In Disguise (2003)

Anno: 2003

Etichetta: Season of Mist

Tracklist:
01. Crushed To Dust
02. Lullaby In Winter
03. Writings On The Wall
04. Into Deep
05. The Boy In The Attic
06. Two Seconds In Life
07. Myron & Cole
08. As Life Flows By
09. Rain

Se è vero che maturità = sobrietà , allora questo è l'album della maturità per i Green Carnation, che dopo un album composto da 5 suite Journey To The End Of The Night e un monotraccia Light of Day, Day Of Darkness, vengono allo scoperto finalmente con un album di canzoni, proprio come preannunciato dal timoniere della band, Tchort, che lascia immutata la line-up del precedente lavoro e decide di normalizzare la proposta del progetto Green Carnation, e il salto di qualità a me sembra netto e chiarissimo, tanto che guardando a posteriori un "Light Of Day, Day Of Darnkess" sembra quasi che si tratti di una prova generale, una specie di jam ingessata (un po come tutte le cose dei Green Carnation) per vedere quali sono le capacità d'esecuzione dei musicisti assoldati dal compositore scandinavo. Finalmente in "A Blessing In Disguise" si concretizza, ci si allontana definitivamente dal doom delle origini e dalla tuttologia dell'album monotraccia, e Tchort incanala la band verso una direzione ben precisa, ossia quella del metal(dai toni più o meno gotici) imbevuto di hard rock settantiano(più o meno progressivo), per certi versi traendo importanti spunti dalla svolta del lontano 1996 di band come Amorphis (vedi "Elegy", che allo stesso modo univa metal -di un altro tipo e tutt'altra ispirazione- ed hard rock) e di qualche anni più tardi anche degli Anathema (ai quali spesso e volentieri ci si vuole avvicinare in questo album), solo che gli Anathema nel 2003 già avevano abbondantemente passato("A Fine Day To Exit") e sorpassato ("A Natural Disaster") le commistioni metal/neo-pinkfloydiane("Alternative 4" e "Judgement").
Il problema di questi Green Carnation è il loro peccato originale, ossia l'ingessatura del loro suono in una forma troppo statica, dovuta al fatto che Tchort, che vive e pensa questa musica, resta sempre in seconda linea, manda avanti gli altri a cantare e suonare i suoi sentimenti, senza osare fino infondo, senza diventare finalmente protagonista di questa musica... si accontenta del ruolo da regista, e non da primo attore, cosa che costa parecchio sull'economia dell'emotività della band. Ma prima o poi si troverà un rimedio anche a questo, il rimedio starà appunto nella scelta all'interno della doppia anima della band.
Cambia l'iconografia (in copertina c'è il figlio di Tchort a fondo bianco), cambiano i temi (dall'astratto-gotico al personale-introspettivo) come vedremo, e cambia l'etichetta (Prophecy alla Season Of Mist).
Lo sfondo bianco da idea di purezza, purezza dell'infanzia, e protagonista è il bambino, in copertina c'è proprio lui la "benedizione" di cui parla il titolo dell'album. Titolo provvisorio era "Writings On The Wall", che poi vedremo essere una frase chiave.
Prima di ogni discorso sui singoli pezzi, va fatto un appunto sul cantante Kjetil Nordhus, semplicemente in stato di grazia. Lui è la vera punta di diamante di questa formazione, e si questo c'è poco da discutere, ma in questo album c'è tutta la sua maturazione e tutta la sua valorizzazione.
Crushed To Dust: La vita vissuta come una strada senza uscita, un binario dal quale è impossibile deviare,con una specie di Dio-maligno nella cabina di regia, di cui è possibile percepire la mano pesante, oppressiva.

recitando pezzi di una commedia lunga una vita
nella quale il protagonista
lascia alle spalle il mondo.
a un certo punto l'atto finisce
la luce si smorza e la musica svanisce

Costantemente aleggia l'idea della morte, non in modo violento, ma freddo, come la fine di un nastro da prendere e riavvolgere.
C'era una donna stesa sul pavimento

livida, pallida
fissa un buco nella sua anima
c'era sangue per terra
il colpo di pistola vicino a lei
Lui pensò "sono più vicino ora
in questo sentiero che dio ha creato per me?

La canzone, grintosa, metallica, che procede ad ampi e freddi riff, è semplice e piatta, quasi una dichiarazione di intenti, una presentazione del disco, un monito per l'ascoltatore, come per avvisarlo che in questo disco non ci sono eccessi, non c'è la baldoria del lavoro precedente, ci sono dei messaggi più profondi, che necessitano un maggiore impegno lirico, e una minore concentrazione sugli intrecci compositivi, che erano l'anima e il corpo del polpettone precedente.
Lullaby In Winter è letteralmente una ninnananna, una promessa di primavera, una canzone di speranza, amore, agli antipodi dei toni funerei dell'incipit (e dei primi lavori deu GC). Musicalmente è un ottimo pezzo, che contiene tutto ciò che non c'era mai stato nei GC: non ci sono idee sconvolgenti, solo un via vai ondoso di sumature su sfumature, colori tenui, suoni delicati, ma allo stesso tempo carichi, nella prima parte sussurrata e accarezzata, per poi aprire un varco ritmico quasi hard/funk, grazie al sostegno ritmico basso/hammond ad opera di Stein Roger Sordal e Bernt A. Moen, poi pausa, intermezzo psichedelico, e una raffica di risvolti melodici imprevisti in perfetto stile prog rock settantiano, tutto costruito in modo molto naturale, disinvolto, ed anche gli archi non sembrano un artificio in questa composizione.
Writings On The Wall riprende certe immagini inquietanti dell'inizio:

un'ombra si allunga da me su di te
stesa per terra
con il martello sollevato
per farti capire
quando la passione dissolve
il sangue è sui muri

Il messaggio sul muro allora è un messaggio di sangue? ancora quella donna per terra. ancora violenza e una immagine di morte inesorabile e tremendamente fredda, che mostra un delitto già consumato, assorbito. Le liriche di Tchort erano e sono espressive di una certa fissità.... ingessatura anche qua?
Musicalmente il pezzo è fatto molto bene, ancora una volta il connubio tra durezza metal e ricami hard rock psichedelici fa centro, per certi versi richiamando il neo-pinkfloydismo degli Anathema, solo che qua c'è tutta un'altra atmosfera, più pesante, e non oscura-malinconica, ma proprio nera, sottolineata da quell'ingresso di batteria a doppio pedale, e la chitarra solista (di Bjørn Harstad), prolissa, veloce, disinvolta forse per la prima volta. Il pezzo resta fondamentalmente incentrato su quella semplicità annunciata all'inizio, ed anche se è arrangiato sinfonicamente, e con tanto di decorazioni pompose, le melodie sono facili ed orecchiabili, un misto di rock pesante e punte di metal, molto accessibile, con un ritornello che assomiglia tanto a uno dei Bad Religion (!). Evidentemente la strada della sobrietà è la via di uscita da quel mondo ingessato in cui i GC sono stati imprigionati per troppo tempo.
Into Deep parla di uno svanire lento, dissoluzione, quasi ci si lascia strozzare, solo per attendere che qualcuno alla fine possa accorrere in soccorso. Il testo è di Kjetil, che anche qua esprime un certo senso di speranza, ma puntualmente, nel finale, anche questa si perde. è da rilevare una certa influenza dei Tiamat di "A Deeper Kind Of Slumber", si tratta in un pezzo aggressivo, maligno, immerso in una nebbiolina psichedelica che emerge nel ritornello, e da un innesto quasi trip hop(che apre e chiude il disco); il brano è impreziosito da una apertura centrale con violino sullo sfondo, e da tastierone suonate peraltro in modo molto minimal da Moen (che fanno molto pop anni 80).
In The Boy In The Attic è ancora Tchort a parlare, fondamentale è per lui la "benedizione" della nascita di un figlio, che evidentemente lo ha portato a fare i conti con il suo passato (reale o romanzato) vissuto con una figura paterna diabolica, fonte dei turbamenti di una vita intera, che può rischiararsi solo con la nascita di un figlio: l'infanzia infranta che si ricostituisce nel ricambio delle generazioni.
La descrizione del padre dell'io narrante è simile a quella del Dio-maligno di Crushed To Dust, un essere supremo che tocca e fa degenerare le cose, un essere spaventoso da cui scappare, nascondersi. Attraverso una nuova vita, il bambino di ieri affronta il suo passato, e riconquista la sua stessa vita. Il bambino che riposa nella soffitta dei ricordi, può dormire in pace.
Musicalmente, si tratta del capolavoro di tutto il disco, 2 minuti e mezzo di sonata di pianoforte introduttiva, ad opera di Moan, poi l'arpeggio fa cambiare scena, inizia il brano sottoforma di ballata per certi versi classicheggiante, per certi versi moderna (il ritmo che fa molto dub), poi l'intervento del doppio pedale, introduce un'altra scena, ritornello, strofa a tendenza sinfonica, il ritmo aumenta, in una progressione continua verso lidi sempre pieni di contrasti, tra atmosfere eteree e batteria improvvisamente nevrotica e martellante, poi tutto si chiude con una coda di pianoforte, lo stesso pianoforte che apre la successiva Two Seconds In Life, una superba prova di composizione soft, con pianoforte in primo piano, e Anders Kobro che da grande prova di versatilità alla chitarra, da atmosfere soft jazz al sostegno di parti orchestrali. In modo leggero e soave si fanno strada echi di chitarra e un delicato pulsare del basso, che non riempiono gli spazi, ma colgono il loro momento con singole pennellate, e un uso molto ritmico dello strumento, fino alla coda elettrica finale dove all'unisono tutti i musicisti creano una climax ascendente di emotività musicata. Ancora una volta Kjetil primeggia, con una prestazione canora toccante e perfetta in ogni passaggio. Il brano successivo invece, Myron and Cole si incastra per contrasto, anche perchè esso stesso si gioca molto sui contrasti, probabilmente il pezzo più contaminato dell'album, in cui confluiscono quegli spunti orientaleggianti presenti verso la fine di "Light Of Day, Day Of Darkness", ad opera di Sordal, questa volta impegnato anche all'arpa. As Life Flows By propone un prog metal molto melodico e accessibile, farcito di tastiere, ritmo sostenuto e chitarre notevolmente appesantite; sembra la versione più complessa del pezzo introduttivo.
Rain vede ancora la penna di Kjetil, che si concede un pezzo che parla di amore bruscamente interrotto:

Piovve tutto il giorno in cui lei se ne andò
non tornò mai
cercando qualcosa che aveva perso per strada
non torno mai
da me

Una storia finisce, e poi nulla torna al suo posto.

lei trovò una montagna ma non ha voluto scalarla
lei trovò un fiore ma non ha voluto annusalo
lei tovo tesori ma non ha voluto possederli
lei trovò una vita, ma non l'ha vissuta.

E se i testi non sono dei trattati di filosofia è anche vero che segnano ormai una inversione di tendenza e il distacco definitivo dal clichè gotico/romantico/naturalistico/esoterico degli esordi. Il senso dell'abbandono è reso attraverso un suono che esprime malinconia e desolazione. Il brano si apre con la chitarra acustica in primo piano, poi si inserisce la voce e piano piano seguono gli altri strumenti, fino a costituire una melodia che diversamente dagli altri pezzi dell'album, vuole dare una idea di fragilità, anche nelle sue evoluzioni finemente prog, con brillanti sfumature di pianoforte, voce talvolta anche effettata, per esprimere senso di alienazione e distacco. Il pulsare del basso è il pulsare del cuore, chitarra elettrica ed acustica si intrecciano freddamente, ed anche il pianoforte, sul finale, sembra suonare come pezzi di grandine che si infrangono sul suolo, nel vuoto circostante.

John

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