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sabato 6 dicembre 2008

Glassjaw - Everything You Ever Wanted To Know About Silence (2000)


Anno: 2000

Etichetta: Roadrunner

Tracklist:
1. Pretty Lush – 2:59
2. Siberian Kiss – 3:50
3. When One Eight Becomes Two Zeros – 4:33
4. Ry Ry's Song – 3:32
5. Lovebites and Razorlines – 4:10
6. Hurting and Shoving (She Should Have Let Me Sleep) – 3:28
7. Majour – 4:00
8. Her Middle Name Was Boom – 4:16
9. Piano – 4:59
10. Babe – 1:43
11. Everything You Ever Wanted to Know About Silence – 5:36
12. Motel of the White Locust – 8:41
13. Losten (Hidden Track) - 3:10

Line-up:
Daryl Palumbo - voice
Justin Beck - guitar
Todd Weinstock - guitar
Manuel Carcero - bass
Sammy Siegler - drum

Che suono ha il silenzio? Lo stesso di un cuore che sanguina, inafferrabile e indefinibile, caldo e fluido, come questo disco.

L’anno è il 2000, siamo in piena era nu-metal, la Roadrunner da alle stampe il full lenght di esordio di quella che dovrebbe essere l’ennesima gallina dalle uova d’oro sfornata da Ross Robinson. Un altro prelibato spuntino da dare i pasto a ragazzini coi jeans larghi e il cappellino da baseball rosso indossato all’incontrario, pronti a far strabordare per l'ennesima volta le casse della casa discografica.
Le cose non andranno esattamente così.
I Glassjaw, pur godendo di un discreto fan base, non avranno lo stesso successo su scala planetaria di Korn e Linkin Park, nonostante tour di spalla ad acts del calibro di Deftones e Soulfly.
Poco male.
A qualche anno di distanza però sorge spontaneo chiedersi il perché ai tempi della sua pubblicazione questo disco non sbancò il botteghino. La risposta probabilmente è più semplice del previsto, e non riguarda scelte promozionali sbagliate o scarsa qualità, tutt’altro. La prima cosa che colpisce ascoltando Everything You Ever Wanted To Know About Silence è quanto risulti fresco e moderno, molto “avanti” rispetto alle produzioni di quel periodo, anche troppo. I Glassjaw infatti hanno il pregio di iscrivere il proprio nome nell’albo di quelle band che, a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, abbattono una volta per tutte le barriere esistenti nella musica estrema, spostando il campo della ricerca sonora un passo avanti.Niente (o pochissimo) nu metal quindi, ma tanto tanto materiale new nell’accezione letterale del termine.
Lungo lo snodarsi delle dodici tracce (più una bonus) assistiamo più volte alla destrutturazione e ricomposizione della materia sonora pesante in forme in continua evoluzione. Sammy Siegler (una vita passata dietro le pelli di leggende hardcore come Youth Of Today e CIV), con l’ausilio dell’ottimo bassista Manuel Carcero, si impegna in prima persona nella frammentazione sonica di cui i Glassjaw si fanno portabandiera, destreggiandosi con eguale perizia tra tempi pari e frammentati passaggi dispari. I due chitarristi, Justin Beck e Todd Weinstock, non sono da meno alternando con perizia deflagrazioni dissonanti che profumano di Botch e Converge ad aperture melodiche degne del miglior emo-core, riff pesanti come macigni della miglior scuola new metal a dialoghi d’alta classe fra i loro due strumenti. E poi c’è l’ingrediente in più, quello che permette ad un supporting cast in stato di grazia di fare il definitivo salto di qualità. Sto parlando del singer Daryl Palombo, autore di una prova a tratti terrificante. Si prenda un ragazzo poco più che ventenne all’alba del terzo millennio. Un passato da straight-edge hardcore militante in quel di New York. Un presente fatto di sofferenze: sentimentali, dettate da un rapporto amoroso andato in frantumi, e fisiche, causategli dal Morbo di Crohn che porta l’ammalato a subire dolori lancinanti all’intestino. E poi la cosa più importante: un talento vocale strabordante, affine a quello di Mike Patton. Shakerate il tutto e…les jeux sont fait disse una volta Sartre.
Ciò che ci si para davanti è un affresco sonoro allucinante. Pretty Lush e Siberian Kiss mettono le cose ben in chiaro sin dall’inizio: sezione ritmica terremotante, riff granitici e Daryl impegnato in una battaglia personale per combattere la sofferenza che lo divora dall’interno. Urla, riflessioni sibiliate a denti stretti, aperture in clean vocals, sembra di assistere ai deliri di un folle intrappolato nella camicia di forza. Ma forse è anche peggio quando la camicia di forza non è ruvido tessuto che ti costringe dal fuori, ma sofferenza pompata nelle vene da un cuore infranto, perfettamente incarnata dal titolo di una canzone, When One Eight Becomes Two Zeros, e dal suo momento di anarchia sonora conclusiva. Ry Ry’s Song, rielaborando in chiave più poppish l’operato dei Deftones di Around The Fur, manda a casa tutta la scena emo-core più modaiola con un buon lustro di anticipo. Lo stesso fanno gli squarci melodici incastrati nei momenti di schizofrenia incontrollata di Lovebites And Razorlines. Con Hunting And Shoving veniamo definitivamente proiettati nella materia hardcore del nuovo millennio: il suono nato un paio di decenni prima nell’ovest degli Stati Uniti, viene preso, rallentato, frantumato, appesantito e filtrato da un coltre di dissonanze. Qualcuno lo chiamerà post-hardcore. Majour prosegue sulla falsariga della canzone precedente, ma con un piglio sempre meno sostenuto che sfocia nella calma apparente di Her Middle Name Was Boom: fraseggi rarefatti, un ritornello che strizza l’occhio al Chino Moreno di White Pony e poi consueto momento di follia sonora finale. Piano è la dimostrazione di come il muro sonoro eretto dai Glassjaw si plasmi attorno all’onnipotenza vocale del suo singer: la band, perfettamente a suo agio in ogni suo componente, segue alla perfezione l’ugola di Daryl nei suoi saliscendi malinconici. Un’alternanza di stati d’animo e atmosfere che pervade in profondità tutto il disco. Capita così di ascoltare in sequenza Babe, in cui si può sentire come i Minor Threat avrebbero suonato se avessero esordito nel 2000, e l’alternanza di pieni e vuoti della title track, dove si raggiunge l’acme emozionale del disco. Daryl, ormai schiavo del suo malessere, non può fare altro che lasciarsi definitivamente andare e vomitare a pieni polmoni sull’ascoltatore tutto il peso di un’esistenza troppo dura da sopportare senza nessuno a fianco che ti ami e ti sostenga: I’m digging a hole, I’ll shout out the world, this is what it’s like to be alone. L’atmosfera è ormai satura di tensione e malinconia, le ossessioni del sesso, della violenza, dell’alienazione giovanile hanno ottenebrato definitivamente le menti e i cuori. Motel Of The White Locust, riprendendo il pathos della traccia precedente conclude l’album incorniciando in maniera quanto mai cruda un’opera di portata enorme sia dal punto di visto tecnico/musicale sia da quello emozionale. Un salto nel vuoto della sofferenza umana che si conclude con uno schianto sordo col cuore che inietta nel corpo l’ultimo getto di sangue avvelenato dal tradimento: pack your shit and leave, and take my memories of her with you. I don’t need to know...and take her fucking with you. Ripetuto fino alla nausea.
E finalmente eccolo, il suono grave del silenzio, pesante come un macigno su un paio di spalle troppo strette per sostenere tutto questo. Il fruscio del vento, toccanti note di pianoforte in sottofondo, la voce di Daryl flebile dal fondo buio del baratro: now I have you where I want you, I know that you are listening, this my chance to tell you everything –fuck you-. My chance to tell you I love you, but I’ve waited too long, now the record it’s over. Fuck you again.

Al centro della scena due giovani giacciono riversi in una pozza rosso scarlatto, in un angolo Eros sciacqua le sue mani ancora sporche di sangue. Le luci si abbassano e il sipario cala sulla trasposizione musicale della tragedia amorosa.

Alessandro Sacchi =KG=

venerdì 5 dicembre 2008

Linea 77 - Ketchup Suicide (2000)

Anno: 2000

Etichetta: Earache

Tracklist:
1. Potato Music Machine
2. Ketchup Suicide
3. Tadayuki Song
4. McHuman Deluxe
5. Miss It
6. Smile
7. You/Kimono
8. Lo-Fi Boy
9. Cacao
10. Moka
11. Walk Like An Egyptian

Linue-up:
Nitto - voce
Emo - voce
Chinaski - chitarra
Dade - basso
Tozzo - batteria

Ketchup Suicide è un disco che arriva da lontano. Da Venaria, provincia di Torino. Uno di quei posti dove il grigio è il colore imperante e l’apatia e la routine quotidiana ti avvolgono nella loro spirale di tristezza e mediocrità. Arriva da qui ma non solo. Arriva da un esordio autoprodotto(e ancora un po’ acerbo) -Too Mucch Happiness Makes Kids Paranoid- che grazie alla sua fusione di hardcore, rap e metal ha catturato l’attenzione di una delle etichette estreme più blasonate, la Earache. Arriva da centinaia di live furibondi in giro per Italia e, incredibile ma vero, ancor più per l’Europa, Inghilterra in particolare. Concerti che hanno messo il nome Linea 77 sulla bocca di tutti gli appassionati di musica pesante, suonata sì col cuore, ma anche con la testa. In queste undici tracce c’è tutto questo e tanto altro ancora. Abbiamo una sezione ritmica schiaccia sassi che compete ad armi pari con quelle dei più tosti gruppi nu-metal americani, grazie ad un batterista fantasioso che non si fa pregare quando c’è da pestare su tempi più intricati e un bassista che dona groove e profondità al suono del gruppo. Abbiamo un chitarrista esperto che svolge un ruolo di importanza capitale nell’economia del suono di quest’album: mai sopra le righe, mai sotto i riflettori, ma sempre sullo sfondo amalgamando perfettamente le detonazioni ritmiche alle scorribande vocali dei cantanti. Ecco, alla fine ci sono loro due, Emo e Nitto. Due singer con voci, diciamocelo sinceramente, simili l’una all’altra, ma che mai come in quest’ episodio della discografia targata Linea 77 si spartiscono alla perfezione il lavoro senza pestarsi i piedi. Emo è sicuramente il più fantasioso, quello che con i suoi giochetti vocali in episodi come il super singolo Ketchup Suicide o McHuman Deluxe richiamano alla mente i gorgheggi di un tale Chino Moreno o del primo Jonathan Davis. Nitto invece è l'anima hardcore della band torinese, l'espressione sonora della violenza metropolitana, ti assalta alla giugulare con il suo scream selvaggio e ti lascia a terra sanguinante mentre le note di Potato Music Machine e Smile scorrono di sottofondo. Scream selvaggio si è detto, e selvaggio è l’aggettivo più adatto per descrivere un album che nella sua razionalità e numetallaggine di fondo ti investe come un treno carico di furia hardcore evoluta, sudore e passione. E allora è facile immaginarsi a pogare sotto un palco ascoltando l’antifashion Moka, unica composizione interamente italiana del lavoro che diverrà negli anni a venire uno dei cavalli di battaglia del gruppo. E’ semplice anche farsi avvolgere dalle melodie quasi emo (e qua l’ombra di Chino Moreno e dei primi Deftones è evidente) di Tadayuki Song o saltare sulla sedia per la schizofrenia di Lo-Fi Boy e Cacao. Ma si rimane anche a bocca aperta nell’udire la rilettura in chiave simil-hardcore del successone ottantiano Walk Like An Egyptian.
Quando il frastuono del disco termina di uscire dalle casse del nostro amplificatore una domanda non può che sorgere spontanea: siamo sicuri che la grigia provincia italiana non abbia prodotto una delle perle più lucenti (ma anche più nascoste) di quel famoso carrozzone chiamato nu-metal? Io una risposta già ce l’ho.

Alessandro Sacchi =KG=

giovedì 4 dicembre 2008

Taproot - Gift (2000)

Anno: 2000

Etichetta: Atlantic

Tracklist:
1. "Smile" – 3:33
2. "Again and Again" – 3:56
3. "Emotional Times" – 3:04
4. "Now" – 3:23
5. "1 Nite Stand" – 3:40
6. "Believed" – 4:02
7. "Mentobe" – 3:38
8. "I" – 4:14
9. "Mirror's Reflection" – 3:11
10. "Dragged Down" – 3:31
11. "Comeback" – 4:24
12. "Impact" – 2:47

Line-up:
Stephen Richards – Vocals, Guitar
Mike DeWolf – Guitar
Phil Lipscomb – Bass
Jarrod Montague - Drums


…just need some time to myself, again, need to bring back the old days when I was in control of my life, again and again. I Taproot sono per molti una band di culto, nulla di più. Nati e cresciuti in piena era nu-metal portano il vessillo di una generazione di giovani cresciuta all’ombra del non-mito del sogno americano infranto. Famiglie distrutte, incomprensione, alienazione e una musica nuova e violenta utile per esorcizzare i propri demoni personali ma che li costringerà a vivere sempre nella scia delle band capostipite senza la possibilità di affrancarvisi. Gift rappresenta tutto questo.
La band originaria del Michigan, riprendendo e rielaborando alcuni pezzi presenti sui loro primi EP, uniti ad altri nuovi di zecca, confeziona un esordio sulla lunga distanza che è probabilmente il miglior lavoro di una band nu-metal non di punta. Le influenze dei Taproot sono evidenti: i muri granitici innalzati dai Korn, le esplosioni di furia dei Deftones, i passaggi cervellotici dei Tool e la genuina decadenza dei primi Staind. Altrettanto evidente è la classe con cui la band riesce a rielaborare l’operato di questi gruppi, tirando fuori una miscela del tutto personale. Dall’enorme calderone di Gift fuoriesce un mix musicale che, abbandonando la facile tamarraggine di molte formazioni contemporanee ai Taproot, ha nell’emotività, nell’introspezione e nello stimolo a riflettere i suoi punti di forza. La matrice rap-metal viene contaminata dai tempi ipnotici dettati dalla sezione ritmica e dai riff circolari della chitarra, sfociando sovente nelle eruzioni vocali di uno Stephen Richards vero mattatore del disco. Il suo approccio vocale infatti si adatta alla perfezione a questo tipo di suono risultando ossessivo come pochi nei passaggi più liquidi e pacati riuscendo però a mutare in pochi istanti in una furia assassina quando il clima si fa rovente. Passiamo così dalle deflagrazioni dal retrogusto hardcore dell’opener Smile e di Mirror’s Reflection, roba da far concorrenza ai Deftones di Around The Fur, ai momenti di violenza cerebrale di 1 Nite Stand, Believed e Mentobe. In mezzo c’è tutto e il contrario di tutto: l’introspezione pura di I e i primi vagiti dell’emocore che verrà di Dragged Down, l’altalenante Comeback e gli assalti di Impact e Now. Su tutte svetta l’inno generazionale Again&Again, il manifesto dell’alienazione giovanile di inizio millennio, dell’incapacità dei singoli di capire loro stessi prima di tutto e chi gli sta intorno in seconda battuta.
Si può dire che Gift sia un po’ il simbolo di quei validi gruppi che, sommersi nell’enorme oceano numetal, sono passati immeritatamente inosservati ai non appassionati. Un album non per tutti forse, a cui come ad ogni lavoro di valore va data la possibilità di aprirsi e mostrare tutte le sue sfaccettature. Solo concedendogli il giusto tempo riuscirete a guardare in quello che i Taproot hanno voluto mostrarvi, e forse riuscirete a guardare meglio anche in voi stessi.

Alessandro Sacchi =KG=

mercoledì 3 dicembre 2008

Korn - Korn (1994)

Anno: 1994

Etichetta: Epic Records

Tracklist:
1. Blind
2. Ball Tongue
3. Need To
4. Clown
5. Divine
6. Faget
7. Shoots and Ladders
8. Predictable
9. Fake
10. Lies
11. Helmet In The Bush
12. Daddy

Line-up:
Jonathan Davis - voce

James "Munky" Shaffer
- chitarra

Brian "Head" Welch
- chitarra
Reginald "Fieldy" Aevizu - basso

David Silveira - batteria

Esistono dischi belli e dischi brutti. Esistono dischi emozionanti, dischi freddi, dischi piatti. Esistono dischi che superano tutto questo, che non possono essere descritti con un semplice aggettivo. Dischi la cui profondità va oltre la percezione dell'ascoltatore. Dischi che rappresentano un'epoca, che hanno segnato e cresciuto un'intera generazione, che ne hanno influenzato il modo di agire e di pensare, che hanno rivoluzionato la musica e hanno fatto impazzire la critica. Korn è uno di questi.
E' la solita storia americana. Un ragazzino sfigato, odiato e preso in giro dai compagni, con un'infanzia infelice che include la separazione dei genitori. Ovviamente il tutto è condito da una buona dose di pulp e morbosità: il vicino pedofilo, la violenza sessuale subita in giovanissima età, i genitori che fingono di non sentire. Il ragazzino viene costantemente umiliato, perchè è effemminato e fuori moda; cresce con in copro una dose incredibile di rabbia repressa. Sta male, malissimo. E' depresso. Trova una parziale valvola di sfogo nella musica: ha una voce notevole, e si diletta sin da quando è bambino a suonare la cornamusa. Così inizia a provare con alcuni gruppi alternativi della sua città. Durante uno degli show con la sua band, come accade in ogni storia che si rispetti, viene notato da alcuni ragazzi che suonano in un gruppo Metal, che di li a poco prenderanno il nome di Korn. Viene contattato, e da un momento all'altro si ritrova catapultato in un nuovo mondo: Jonathan è stato nella sua adolescenza un fan della New-Wave, e ascolta i Duran Duran. Del Metal non ne ha mai neanche sentito parlare. Ora, sentito come canta nei Korn. Provate a sfuggire ai suoi tentacoli. Alla sua voce straziante, ai suoi sussurri. Alle sue grida. A quel modo tutto suo di interpretare i pezzi, caustico ma allo stesso tempo rassegnato.
Il primo disco dei Korn è una storia. Una storia americana. Di quelle piene di soprusi e violenza. Proprio come quella di Jonathan. I testi autobiografici parlano di bullismo, di pedofilia, di temi forti. Denunciano la società non tanto dal punto di vista politico, no: quello lo lasciano ad altre band. Sono un semplice sfogo. “Siamo stufi”, sembrano dire. Stufi di una società conformista, che divora la personalità e gli ideali dei ragazzini. E non è un messaggio da sottovalutare: oggi va di moda essere contro le regole, contro la società. Negli anni '90 non era così scontato. Davis si dispera, si arrabbia, distrugge il concetto di cantante Rock, lo rielabora. Lui non è un divo, è un ragazzo come tanti, con problemi di droga e di depressione. Racconta storie che tutti conoscono, ma fingono di non aver mai sentito. Abbatte le barriere imposte dal perbenismo americano.
E' un disco difficile da descrivere, andrebbe semplicemente ascoltato. Sviscerato. La musica, il loro Funk-Metal così crudo e violento, non è altro che la cornice, l'accompagnamento della narrazione. Il cantato psicotico di Davis, che ruggisce e miagola, distrugge e si abbandona al pianto, ci guida attraverso un viaggio lungo, fatto di sofferenze atroci e di verità inquietanti. La prima di queste verità, è che stiamo diventando tutti ciechi.

Deeper, deeper, deeper inside me
I live a life that seems to be a lost reality
That I can never find a way to reach my inner self.
I stay alone.

Blind è il pezzo con cui si apre il disco, nonché ancora la canzone più rappresentativa dei nostri. E' un pugno nello stomaco. “Are you ready?”, ci sputa in faccia Jonathan. Siete pronti? Siete pronti ad addentrarvi nel profondo della mente umana, a prendere parte agli oscuri psicodrammi inscenati dai cinque americani? Ormai è troppo tardi per abbandonare. I riffs ruvidi e massicci, il basso pulsante di Fieldy, la voce teatrale e sofferente. C'è tutto quello che rappresenta il sound dei Korn del primo disco. E allora abbandoniamoci tra le braccia dell'oscurità, e proseguiamo il nostro viaggio. Se Blind era relativamente pacata, ci pensa Ball Tongue a distruggere le poche certezze che ci rimanevano. Il muro sonoro è semplicemente sconvolgente. Quel giro di basso entrerà nella storia, quella sezione ritmica potente e dal tocco vagamente (ma anche di più) Funky, le grida e i rantoli di Jonathan, le chitarre che dipingono riffs tipicamente Metal, ma dal gusto Rock e dall'impatto devastante. “No hope”, dice a un certo punto il testo. Questo è il pensiero di chi ascolta Ball Tongue. Un condensato di rabbia che si spegne in grida di dolore. Un dolore allucinante, che non ci colpisce fisicamente, ma ci distrugge psicologicamente. E poi arriva Need To. Il ritmo sincopato, i rocciosi riffs questa volta molto più Rock, non sono altro che la tela su cui Jonathan tesse il suo dramma: è la storia di una persona alla ricerca dell'affetto che non è mai riuscito ad ottenere, che gli è sempre stato negato. E soffre, soffre come un cane. Il dolore è allucinante ma non può morire, non deve, deve continuare a soffrire. E la rabbia sale. Rabbia che si concretizza in un pezzo, in una canzone straordinaria: Clown. E' una dichiarazione di odio verso i bulli, verso coloro che si credono migliori. Ma non fermiamoci a questa semplice storiella: in realtà è una critica ben più profonda, rivolta al sistema e alla cultura americana (che poi dilagherà in tutto il mondo), quella del conformismo.

Scream at me again, if you like
Throw your hate at me, with all your might
Hit me 'cause I'm strange, hit me
Tell me I'm a pussy and you're harder than me
What's with you boy? Think hard
A tattooed body to, hide who you are
Scared to be honest, be yourself
A cowardly man

Il ritmo psicotico della canzone è una tortura per il nostro cervello, che riceve il colpo finale dal cantante nervoso di Davis. I suoi sussurri crescono. La lenta cantilena del ritornello diventa presto un cumulo di grida violentissime. E' uno sfogo, uno sfogo con le lacrime agli occhi.
L'intensità di questo pezzo non ha ancora fatto in tempo a spegnersi, quando attaccano Divine e, senza lasciarci un attimo per riprenderci, Faget. Il discorso è più o meno sempre lo stesso: si parla del Jonathan sfigato, del Jonathan effemminato, del Jonathan drogato. Di Jonathan come di molti altri. Un'intera generazione si riconosce in questo testo, e grida contro il muro della propria camera tutto l'odio che ha in corpo verso una società che non accetta la diversità. I riffs quasi Thrash Metal, che ricordano tanto i Sepultura quanto i Pantera, la sezione ritmica a dir poco eccezionale, con David Silveyra sugli scudi, capace di passare dal Funky al Metal, passando per il Rock pesante, e Fieldy semplicemente sensazionale, con quei suoi giri di basso che entrano direttamente nella storia. E su tutti Jonathan Davis, che graffia con quella voce così teatrale, così perfettamente calata nella parte. Così dura, ruvida, straziante.
Il terrore ci pervade con Shoots and Ladders, un'oscura litania che si apre con un'intro di cornamusa, strumento suonato sin dall'infanzia da Jonathan, che intona successivamente una filastrocca tanto infantile quando incredibilmente inquietante. Uno dei punti più alti dell'intero disco, nonché uno degli spunti più geniali di tutto il Rock degli anni '90. E alla paura si sostituisce di nuovo il dolore, con le successive Predictable e Fake. Sconvolgenti. Le sonorità quasi noise della seconda sono lo sfondo di un massacro verbale messo in atto da Davis, un attacco rivolto a tutto e a a tutti. E se Lies continua su questa falsa riga, con Head alle backing-vocals che si esibisce in un growl a dir poco devastante (è questo, probabilmente, il pezzo più violento dell'intero album), Helmet In The Bush gode di influenze Industrial.
Siamo giunti quasi alla fine. Il dolore ci pervade e ci stritola le budella, ci spinge contro il muro con un coltello puntato alla gola. Il cantato tenebroso di Jonathan Davis è ancestrale, ci riporta ad un passato scuro. Salvo poi sbatterci di nuovo nel presente, e narrarci una storia a dir poco sconvolgente. La storia dello stupro subito dal frontman. Entrare nell'intimità del cantante, che cerca di spiegare ai suoi genitori cosa è successo, è addirittura imbarazzante. E ci fa male. Soffriamo per noi, per lui, per un mondo che sta scomparendo. Gli ultimi sussurri, gli ultimi gemiti si fanno strada. Le nostre orecchie piano piano si liberano da questi suoni così oscuri, così bassi. Così dannatamente reali. Stiamo lentamente uscendo da questo psicodramma. Ma come accade per un libro di Kafka, l'esserci liberati da un tale peso non equivale al sollievo. Che sia il caso di ricominciare il viaggio?

Alphadj

martedì 2 dicembre 2008

Tomahawk - Anonymous (2007)



Anno: 2007

Etichetta: Ipecac recordings

Tracklist:
1. War Song
2. Mescal Rite 1
3. Ghost Dancer
4. Red Fox
5. Cradle Song
6. Antelope Ceremony
7. Song Of Victory
8. Omaha Dance
9. Sun Dance
10. Mescal Rite 2
11. Totem
12. Crow Dance
13. Long, Long Weary Day

Line-up:

Mike Patton - voce, samples, keys,
Duane Denison - chitarra, basso
John Stainer - batteria

La chiave l'avevan riposta verso il termine di Mit Gas, due tracce atipiche persino per una band così imprevedibile, episodi sconnessi che diventan catena ai primi cori tonanti di questo percorso. Avete circa due minuti per penetrare nel cuore di un villaggio di capanne , prima che la terra sazi la sua sete con la pioggia di “
War Song” , in pieno stile new age/ambient. Che il Pow-wow abbia inizio . Non è un esagerazione, i componenti per la rappresentazione , musicalmente , ci son tutti. E il sound della band sembra sposarsi perfettamente con l'attitudine della musica dei nativi d'america. Il mantra ossessivo di una strofa, il riff essenziale, il cantato statico tendente all'aumento dell'ottava a lungo andare. La tradizione diventa un comodo vestito per il consueto duo. Senza però tralasciare la performance eccezionale di John Stanier , grande interprete dietro alle percussioni , perfettamente utilizzate , da rimandare proprio indietro coi secoli. Basti pensare all'ottimo intermezzo di “ Ghost Dance” , legato all' handclapping , componendo una struttura eccezionale , evolvendosi quasi in una marcia. Meno assalti HC ( nonostante la presenza di “Sun Dance” , in schema classico da primo disco , confermi che i nostri, certe escursioni son ancora benissimo capaci di attuarne ) più mantra atmosferico. Un disco da ascoltare nella sua interezza, facendo riposare i tasti del lettore, godendosi un fascino morbosamente nervoso ancora intatto ( “ Red Fox” ) e scampoli di sempre brillante demenzialità. “Antelope Ceremony” poggiata tutta come fosse una jam session, per poi dare spazio ad un tappeto syntato di voci e rumori naturistici ove far scorrere l'immaginazione. Aleggiano i fantasmi in cerchio , a fluttuare su un antico totem, le voci sinistre in “Cradle Song”, tra le tastiere del vocalist californiano ( interprete carismatico di un semispoken su base minimalista , vagamente rimembrante di “Subway song” dei The Cure, con tanto di latrato e una nonfine...) e il basso . Lo spartiacque del disco è “ Song of Victory” , breve come può essere sottile una linea di confine , goliardica quanto un frammento di specchio mentre un pagliaccio ci si guarda attraverso ( ... ) , una sorta di breve cavalcata con tanto di zoccoli simulati dalla ritmica e dagli incitamenti di Mike. Interprete di linee melodiche davvero efficaci, memorabile il Climax di “ Omaha Dance” e la litania in “Crow Dance” , attorniato da controcanti . Aggiunge così un altro prezioso tassello al suo background musicale già vastissimo. E ascoltando “ Long, Long Weary Day” , con Denison in salsa folk minimalista, si può tranquillamente affermare che non è l'unico a potersene fregiare. Un azzardo che dividerà sicuramente i fans , ma nonostante ciò, va ricordato quanto detto in apertura, e quanto la successione dei brani rispetti benissimo la radice della band, una sorta di coda che abbraccia la testa della discografia creando un percorso ora certamente più comprensibile e chiaro,. Dedicato a chi si era stufato di leggere Jesus Lizard in ogni santissima recensione osservata, o a chi pensava che i tributi di tal tipologia musicale li sapesse far solo Peter Kater o la musica Indios fosse quella inclusa nei cd dei mercatini :tra collane della fortuna e magliette con aquile, riproponendo vecchi classici Europei con i flauti del mulinobianco . Perchè Anonymous mente
.

Gidan Razorblade

lunedì 1 dicembre 2008

Tomahawk - Mit Gas (2003)

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Anno: 2003

Etichetta: Ipecac recordings


Tracklist:
01. Bird Song
02. Rape this day
03. You can’t win
04. Mayday
05. Rotgut
06. Captain Midnight
07. Desatre natural
08. When the stars began to fall
09. Harelip
10. Harlem Clown
11. Aktion F1- 413


A distanza di due anni dall’ esordio, durante il quale ogni singolo membro dei Tomahawk si dedica ai diversi progetti, esce “Mit gas”(che tradotto dal tedesco, significa “con gas”, riferendosi all’ acqua frizzante, nda). È cambiato il produttore (Joe Barresi) e di conseguenza muta anche il tipo di sound offerto. Attenzione non stò dicendo che i due lavori sono diversi come il giorno e la notte! La ricetta di base non cambia, ma vengono aggiunte nuove sfumature che rendono il disco molto più godibile del primo per via della sua maturità compositiva. Più sofisticato, propone una gamma di generi/melodie più spettacolari per completezza e varietà: se nel primo, l’ atmosfera era molto più “caotica” ed “opprimente”, qui alterna fasi di intimità a esaltazione pura e sfrenate invettive sonore. Ma procediamo ab originis. “Bird Song”, ossia il cinguettio degli uccellini non è assolutamente un presagio del topos che troveremo per tutta la durata di Mit gas: chitarra camuffata da sirene in lontana (come se fosse convocata un’ adunanza), una batteria che ha un che di trip hop accelerato, un giro di basso che si fonde con le sei corde di denison che richiamano le sonorità heavy contorte di alcune band di inizio millennio (Isis, Tool, Mastodon, ad esempio). La voce è prolungata ed instancabile nel tenere la nota, preferendo la progressiva sfocatura, il che rende tutto molto più epico. “Rape this day” è il singolo estratto dal cd, molto rock -nella sua concezione purista degli anni ’90, inizia con una corsa accompagnata da quello che sembrerebbe un organo, ma in realtà si tratta della strumentazione di Patton. Grande riff, ripetuti ad libitum e Stainer che pesta saltuariamente, imitando il rumore del lampo. Pezzo coinvolgente nella sua fase centrale. “You can’t win” ricorda “What a Day” dei faith no more, intervallata da parti placide e parti travolgenti, poi la quiete. Ci catapulta nel nostro inconscio, dove l’ attrezzatura e gli effetti del leader dei fantômas risuonano come goccie lasciate cadere da un rubinetto che perde. Solo l’ apreggio, sfocato e poco nitido, in lontanazza ci salva. “Mayday”: batteria che suona in 4/4, chitarra iperdistorta con abbondante uso della pedalina, mentre il ritornello è catchy e Mayday viene urlato con un acuto heavy metal finale. E’ il turno diRotgut, una spirale che , dolcemente sostenuta dagli accordi, ci accompagna in un viaggio a ritroso. “Captain midnight” è forse la migliore traccia, non solo dell’ intero album, ma della produzione del gruppo. Quel “take me away”, invito che risuona all’ infinito, rende ancora più incantevole la canzone. “Desastre natural”, nonostante il titolo, è il pezzo più calmo del disco, in cui il testo in spagnolo rivela l’ anima gitana e raffinata come il velluto. Emozionante. “When the stars began to falls” è un’altra canzone incredibilmente rock, che offre un grandissimo distacco tra strofa e chorus, in un climax in cui Denison toglie fuori le unghie e Stainer massacra le pelli. “Harelip”, è un brano vacanziero, fluido, brioso in cui la distorsione non aliena, ma coinvolge. “Harlem clown” è la strumentale di turno, inizia come un disco rotto, ma è in realtà l’ allegoria della sperimentazione con richiami allo space rock, elettronica, e i primi 20 secondi di Astronomy Domine dei Pink Floyd. Ultima traccia “Aktion F1 – 413, in cui la voce racconta, intervallata poi dal canto, sulla base di una chitarra acustica che rimanda al deserto americano, in cui di notte il fuoco si agita sferzato dal vento. Ma tutto muto ed è un uragano apocalittico di suoni lisergici, distorti e contorti Poi la quiete dopo la tempesta . Pericolo passato, e come canta Mike in “captain Midnight”, “Don’t be afraid.”.


Sgabrioz