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venerdì 14 novembre 2008

Neurosis - Given To The Rising


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Anno: 2007 Etichetta: Neurot Recordings

Line-up:
Scott Kelly - Guitars & Vocals
Steve Von Till - Guitars, Vocals, Filters & Textures
Dave Edwardson - Bass, Moog Synthesizer & Space
Noah Landis - Organ, Piano, Samples & Atmospheres
Jason Roeder - Drums
Josh Graham - Visual Media


Tracklist:
1. Given To The Rising
2. Fear And Sickness
3. To The Wind
4. At The End Of The Road
5. Shadow
6. Hidden Faces
7. Water Is Not Enough
8. Distil (watching The Swarm)
9. Nine
10. Origin


"I would rather be ashes than dust!
I would rather that my spark should burn out
in a brilliant blaze than it should be stifled by dry-rot.
I would rather be a superb meteor,
every atom of me in magnificent glow,
than a sleepy and permanent planet.
The function of man is to live, not to exist.
I shall not waste my days trying to prolong them.
I shall use my time."

Jack London

"Io vorrei essere cenere piuttosto che polvere!
Io vorrei che la mia scintilla bruciasse fuori
in una vampa brillante piuttosto che soffocasse fino a morire.
Io vorrei essere una superba meteora,
ogni atomo di me in un bagliore magnifico
piuttosto che un pianeta sonnolento e permanente.
La funzione di uomo è vivere, non esistere.
Io non sprecherò i miei giorni tentando di prolungarli.
Io userò il mio tempo."


Queste sono le prime parole che compaiono aprendo il booklet dell’album.
Interviste, parole postume, congetture…sono futili.
Perché cercare di dare un signficato a posteriori, quando sul momento, le parole dello scrittore statunitense, scelte dalla band, riassumevano e ancora riassumono il significato dell’album, il signficato di cosa sia la musica dei Neurosis.
Mai come prima la band di Oakland aveva marciato e meditato sulle parole che dessero voce e sentimento alla loro musica. Mai il loro concept è stato così difficile, nascosto, volutamente lontano dalla facilità di comprensione.
Given To The Rising.
Consegnato a chi si eleva?
Donato alla fonte?
Dedito al sorgere?
Sì, forse. Ma come sempre il significato che si cela dietro la band può signficare tutto, ma può anche signficare niente.
E allora atteniamoci come sempre alle tracce che la stessa band ci consegna, orme che vengono dal passato per comprendere il presente e gettare una luce nel futuro. Io stesso ho cercato di analizzare in maniera soggettiva tutto il mondo che i Neurosis si portavano dietro, ma cercando di creare collegamenti, con i loro ruoli, con le immagini che accompagnano i loro album, con le loro rare parole, arrivando a un pensiero intersoggettivamente controllabile, ovvero confutato e accettato.
Quindi in maniera semplice, la band ha portato avanti il discorso affrontato negli album precedenti, ovvero l’elevazione, la rinascita spirituale dell’individuo, la propria esistenza in continuo contrasto con la natura, forza superiore che dona e prende a seconda di quanto noi le doniamo o prendiamo. E solo coloro che sanno innalzare il proprio spirito fino ad arrivare in sintonia con essa, potranno godere della pace interiore, della libertà assoluta.
Perché spesso, non ce ne rendiamo conto, ma la Natura è viva, è parte fondamentale delle nostre vite, ma ormai si mette da parte, spinti come si è dal progresso, crescendo in spazi dove il verde è soppiantato dal freddo grigio, facendo in modo che quando ci si trova faccia a faccia davanti a Lei, non la si riconosce più, e automaticamente si distrugge. E Lei risponde, distruggendo.
Così l’artwork è severo, come la Natura, rappresentando una figura presa da Josh alla Piazza Dell’Eroe di Budapest, e circondata da altre figure che altro non sono che monumenti immortalati in altre piazze e luoghi dell’Europa Centro-Orientale (sotto suggerimento di Steve).
Ancora una volta il tutto ha preso forma lentamente, vista anche la poca predisposizione della band a esibirsi in sede live, scegliendo ormai poche ma fondamentali date per presentare ogni nuovo full-length, accrescendo la loro fama e l’alone di mistero che li circonda. Anche questa volta, ancora, è il maestro Steve Albini a supportare il combo di Oakland nel loro viaggio, ma non come figura di guida o maestro, poiché la strada già la conoscono, bensì come una figura di speranza, di supporto, con la quale creare una sintonia apposita per affrontare il viaggio. Agli Electrical Studio il clima è di pace e tranquillità, perfetto per operare in maniera serena e lenta, tanto che lo stesso Steve, come da lui detto, passa là gran parte delle sue giornate, producendo e suonando, con tutta la calma di questo mondo, ed è così che ad esempio si è dovuto attendere sette anni per sentire nuovamente i suoi Shellac, ma è così che lui trasmette il suo operato alle band che si fidano di lui, perfezionando e vivendo ogni album come fosse l’ultimo della carriera di una band.
E mai come stavolta il suono è frutto della collaborazione tra le due entità.
La band è cambiata dopo Through Silver In Blood, ha riposto i panni di psicanalista del cosmo e dell’uomo contemporaneamente, puntando il proprio pensiero unicamente su quest’ultimo e la sua vita, con tutto ciò che ne consegue. Per questo con la pubblicazione di Times Of Grace parlai di un suono divenuto terreno, sentito, materiale, corposo. E per questo motivo Given To The Rising tanto gli assomiglia. Fisico e d’impatto, ma dai suoni caldi, psichedelico, ma non come ASTNS o TEOES, ancora più minimale in questi frangenti, e tutto permeato dalla cupezza lirica e attitudinale che rese immortale un album come TSIB.
4/6 della band è insieme da ben sedici anni, mentre la line-up odierna si ha da otto, e proprio questa unione porta la band a lavorare unita, a partire da un riff di chitarra, da un effetto, per poi spogliarlo o vestirlo a seconda dei casi, e imbastirci sopra una canzone senza cedimento alcuno.
L’album si apre con la title-track, possente dove Scott ringhia violento contro l’inconsistenza degli uomini, ormai materialisti vuoti:

“The human plague in womb
Bring clouds of war
Let us rest
Our future breed is the last
In the conscience waits
Dreams of the new sun”


Un vuoto che è presto espresso dalla quiete acustica creata da Steve e Noah all’unisono, un lieve tappeto di tastiere dove arpeggi fumosi si adagiano lentamente, e la voce dello stesso Von Till conduce alla nuova rabbia, si dona alla rabbia, e i due vocalist-chitarristi si uniscono a creare un muro di suono possente e invalicabile, dove nascoste sibilano le tele di Landis, forse in quest’album meno presenti, ma non per questo non fondamentali per la struttura sonora tutta. Ed ecco che nuovamente ricompaiono le chitarre acustiche, ma stavolta sorelle di quella elettrica che compie un movimento spaziale, circolare e ipnotico, e si spegne così come era iniziato. Lì dove finisce Scott inizia Noah a ricamare nuovamente, questa volta in compagnia di Dave, che stende nere trame di basso e sintetizzatore, come a voler rimarcare il carattere cupo dell’album, e il dolore che di lì a poco prende voce con gli strumenti, è quello che il combo ci ha abituato a conoscere, ma con un filo di speranza, con un monito sussurrato di salvezza, sempre raggiungibile.
Fear And Sickness è tutta là nel titolo. Arpeggi distorti che incutono timori e che velenosi si aprono in un mantra dove a far da padrone e il drumming catatonico di Jason, mentre sopra ogni cosa si erige la voce di Steve, notevolmente mutata nel corso del tempo, ora più simile a quella di Scott quando recita pacata, ma più profonda e roca quando esplode la furia della canzone. I ritmi son ipnotici e sulfurei ma con gli echi lontani dei campionamenti di Landis sempre a tenerci ancorati alla realtà, e senza perderci ci addentriamo in un sabba severo e oscur, che impazzisce improvvisamente in danze frenetiche e veloci, guidate ancora da Jason in maniera precisa e nervosa, sopra le quali volano i riff di Scott e Steve, mentra pulsa in sottofondo il basso metallico di Dave.
E la paura ancora una volta, prevale su tutto:

“Inscribe your fears in the soil
The sea is foul
Like worms in your heart
Consume an age old
Of forgery and deceit
At the center we will find you
Falling prey to its lustre”


To The Wind è il finto baluardo di speranza che la band ci ha sempre donato nel corso dei suoi lavori, un inizio soffuso che pesca dalle nuove leve del post-rock ibridato al folk come Grails o Arab Strap (degli esordi), quindi atmosfere pacate e riflessive, gioiose…che ben presto finiscono, ma mancanti ancora del quid oscuro avvertito in precedenza, anzi i ritmi son veloci (per gli standard Neurosis, ma sta di fatto che era dai tempi di Souls At Zero che non viaggiavano in questa maniera) e con sfumature di colore alla fine di ogni riff, che segna la nuda pietra.
E tutto d’un tratto l’atmosfera cambia. Basta un piccolo intervento di Noah che il tutto si fa inquietante guidato dai sussurri di Steve che impazzito sbraita contro il microfono antecedendo il martirio che si protrae verso il vento, e lo porta lontano, come a farlo conoscere a tutti gli uomini, come avviso, come ricordo scolpito.
Ed ecco che come previsto, arriva il secondo inganno, ovvero il meandro prima sussurrato di At The End Of The Road, che riprende i veri tribali di Enemy Of The Sun e ruggisce nel finale, e poi quello noise di Shadow, dove sussurri intensi di versi antichi. E stranamente, i riferimenti all’argento si presentano nelle lyrics, “portandomi a loro, sto camminando verso l’eterno lago di luce”.
Gli echi elettronici si protraggono e dilatano si fanno metallicie rumoristi, si frantumano in mille pezzi, in un pezzo che ricorda le tentazioni drone di The Eye Of Every Storm, dove quella piana di chitarre imbavagliava la tempesta, e ora invece accarezza la nuda terra. Pochissimi riff, tirati allo spasmo, e solo nel finale prendono vita come le faccie degli spiriti di cui parla Steve, ormai principale voce della band, lasciando a Scott i fondamentali ricami vocali in secondo piano, creando un atmosfera satura e sibillina. Quasi un rito purificatore che ancora non può avvenire perché…Water Is Not Enough.
L’acqua come l’argento, per lavare via la memoria e il passato. I ritmi son quelli di Times Of Grace, e salta subito alla mente il paragone con la grandezza di Under The Surface; all’inferno vocale dei due leader si alternano i loro lamenti pulti e sofferenti, mentre i riff scorrono via solenni, puntellando di aghi il loro perscorso, sul loro finale, accennando una mefitica melodia, donando nuovamente spazio alla natura, al firmamento, un ritmo che non da riposo, che tiene svegli, giusto in tempo per vedere i guerrieri che ci portano al cielo:

“The volted antenna saints that will the fire
The hand is gnawed
The end is nigh
The warriors remain and they bring us to the sky
We'll burn in the sun
And we'll fall to the moon”


E ormai si è su, osservando lo sciame che brulica lontano di coloro che non ce la potranno fare. E in religioso silenzio si apre Distill (Watching The Swarm), che poi d’un tratto esplode con clangore metallico sopra ogni cosa, giocando con dissonanze e distorsioni che si inseguono e su fondono, creando un vortice sonoro di irresistibile fierezza, guidato ancora una volta da Steve.
E così come erano nato, il turbine di sabbia si spegne e lascia solo vuoto e rovine, ma non è ancora finito, poiché ben presto riprende forza porta il suo attacco finale verso il mondo che noi tutti conosciamo. Eccola, la fine arriva, silenziosa e mortifera, guidata dalle tastiere di Noah che disegnano quadri solitari di paesaggi brulli, un silenzio così profondo che neanche le urla finali di Steve riescono a spezzare, poiché grido che solo lui può sentire, nella sua mente.
Nine si può configurare nel trittico ingannevole interrotto con Shadow, rumore puro. Grave.
Ma il tempo per giocare è finito. La terza mossa è quella finale, quella vincente.
La prima inganna, la seconda disorienta, la terza…
No, nel loro caso non uccide, non rientrerebbe nella loro armonica visione del mondo.
Porta all’origine, quello sì.
Ed è così che la band si guarda dietro, in maniera dialettica, riconoscendosi in tutte le sue evoluzione, facendole proprie a un livello superiore, e vestendole per un ultimo viaggio in Origin.
Quì son presenti tutte le faccie del sound dei Neurosi, che ormai abbiamo imparato a conoscere.
E lascio che sia la musica a parlare, per la traccia forse migliore dell’album, e lascio che siano i versi a chiudere il pensiero sull’ennesimo capolavoro dei Neurosis :

“Le stelle acide hanno sfregiato la mia mente e mi hanno lasciato come un fantasma
Ruppi la mia maledizione e la diffusi attraverso la terra dove io vago guidato,
sporco e scuro il progetto guarda arcigno,
espulse, le cattive luci anonime mi tirano in un buco nero psichico e riflesso”


Neuros

Neurosis - The Eye Of Every Storm


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Anno: 2004 Label: Neurot Recordings/Relapse Records

Tracklist :
1. "Burn" – 7:07
2. "No River To Take Me Home" – 8:43
3. "The Eye Of Every Storm" – 11:57
4. "Left To Wander" – 8:11
5. "Shelter" – 5:18
6. "A Season In The Sky" – 9:50
7. "Bridges" – 11:36
8. "I Can See You" – 6:10

Line-Up :
Scott Kelly - guitars, vocals, percussions
Steve Von Till - guitars, vocals, percussions
Dave Edwardson - bass guitar, synthesizer, vocals
Noah Landis - organ, piano, samplers
Jason Roeder - drums
Josh Graham - visuals

“Questo mondo di fredda pietra non dà niente in cambio
A coloro che dormino mentre senza conforto bruciano
Ci sono pochi guidata alle fiamme
I più son contenti di annegare nel risveglio dei sogni.”

Nell’occhio del ciclone che severo ci avvolge, rimaniamo in attesa.
Un esodo durato otto album (ufficiali, targati Neurosis), e vent’anni di iconoclasta devozione alla musica. Per arrivare a scegliere il male minore, come ormai la nostra società è abituata.
Pur di non implodere per la gravità che comporta l’elevarsi spiritualmente, per guardare la realtà dall’alto, viene scelta una nuova via, cominciata con Times Of Grace : tornare alla terra che ha visto trascorrere i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni delle nostre flebili vite, e sancire l’armonia con essa, madre amorevole e sincera che non giudica mai, il cui desiderio è solo quello di ascoltarci e amarci, sempre.
Poggiare i piedi laddove è presente ogni soffio di creazione, sia essa divina o no, per avere una visione spirale e totale, a 360^, per comprendere definitivamente l’essenza delle piccole cose.
Ancora una volta le due anime , le due facce della medaglia che creano questo immenso e variopinto riquadro sonoro, opera le cui sfumature oscillano sempre tra il grigio e lo scarlatto : una è quella del maestro, il capitano, il guru Steve Albini, che con band quali Shellac, Big Black e Rapeman ha segnato la via per concepire una nuova maniera di plasmare la musica e renderla espressione dell’animo, nonostante le mille sfaccettaure, spesso fredde e matematicamente incastrate fra loro.
Dall’altra parte le mani sapienti di una band che tutta, muovendosi in gruppo, ha seguito la strada indicata da Steve, e, con diligenza e pazienza, ha saputo divenire allievo più importante, e ora comprende di avere definitivamente le carte in regola per superare il proprio maestro.
Un percorso compiuto a capo chino, in maniera umile, senza mai alzare la voce, se non per sfogare in solitudine la propria rabbia nascosta, per non scaricare la propria fragilità su di un mondo che non merita neanche di lenire il nostro dolore, al di fuori di poche e fondamentali persone, che amiamo.
“Negli oceani io posso trovarti, io posso vederti, io posso vederti”.
Il sound?Beh muta ancora, come da tradizione per la band, come un serpente che necessita di cambiare pelle ogni stagione, per tornare più forte e che mai e poter riaffermare la sua supremazia.
Le architetture sonore, a dispetto di una sempreverde ricercatezza nelle sovrapposizioni timbriche, come creato da Souls At Zero in poi, sono ora più scarne, scevre anche di quella pienezza orchestrale che ha fatto capolino nel precedente lavoro. Sottraggono, scremano gli strati di suono per sviscerarne l'essenza. Momenti di crescita verso alti picchi d'intensità si liquefanno in un batter di ciglia per dar spazio ad amniotiche aree di decompressione, come se un limbo ci catturasse per assorbirci al suo interno. A volte lo strato di suono è così sottile nella sua pienezza, da parire etereo.
Lo sguardo si volge intorno, verso paeasaggi bruciati che ardono l’anima, un bagliore fortissimo che anticipa la deolante catastrofe nucleare incorniciata da Burn. Non manca l’intro presente in Times Of Grace e A Sun That Never Sets, ma viene integrate all’interno di un’unica song : una gusto agrodolce dove danzano serene le vocals desolate di Steve Von Till e le chitarre appena accennate di Scott, mentre Jason guida la fila con precisione chirurgica, andando a sezionare il caos sprigionato all’improvviso dai riff dei due leader, e rendendolo inoffensivo, riducendolo unicamante a un’ eco lontana, sovrastata da keys di ambient puro che solo il migliore Burzum meglio poteva giostrare. Ma una quiete perenne è difficile da mantenere, ed ecco infatti tornare la violenza meditata che tanto è vicina alle ire dei Breach, dove chitarre taglienti come rasoi squarciano l’aria.
Una song sussurrata all’orecchio che narra di solitudine e speranza lontana, pacato amore per chi è lontano, lottare insieme a qualcuno in un mondo ostile, dove imperversano gli eremiti.

“Feel the freeze burn skin
salt your open wounds
a burning desire clears your eyes
a willful air fills your lungs"


Comprendere che tutte le strade sono in salita e che esiste No River To Take Me Home.
Lo sciabordio lontano delle onde che mosse dalla corrente portano lontano e cercando di dividere, armonizzazioni buie si muovono sopra un plateau di riff dilatati e compressi, dal sapore quasi drone, mentre in superficie l’esperimento ripetuto nella precedente opera, viene ripetuto, nuovamente in maniera eccezionale : un Von Till che dona la sua voce calda e pulita a muri sonori troppo spessi da sembrare reali. Ma non si lamenta solamente, è capace ancora di digrignare i denti e inveire contro un destino così beffardo, e niente si può fare, se non urlare, in maniera sommessa, su arpeggi che riprendono i (da loro stessi influenzati) Red Sparowes, Tone, Grails. E nel silenzio più profondo la song va a spegnersi, la notte e sopraggiunta e tra incubi si muove inquieta,

“Let them come
Be my eyes, lead me on
Lift me out, tear me up, spark to fire
Whatever comes through me I will be
I had three signs thrown down on me
Fate frees my heart
Whatever comes through me I will be”

tormentando anche le anime dei puri, ma per loro, il giorno arriva sempre, dopo ogni tenebra.
Ed ecco infatti i raggi di luce, ma i così belli e accoglienti che chiudono in maniera definitiva un componimento che splende di luce propria e da solo vale il disco.
Giunge l’alba di un nuovo giorno e si percepisce che l’aria è carica di elettricità, inquietudine e paura abbracciano l’animo, sbigottito dalla presenza contemporanea del sole e delle nuvole circostanti, come è giusto che sia ne The Eye Of Every Storm. Una tranquillità beffarda che non culmina in niente, ma riesce a mantenere una tensione altissima, visto il pensiero passato di un esplosione imminente, capace di logorare dentro, e il disagio è manifestato dalle voci malinconiche di Kelly, Von Till ed Edwardson, che solcano il limite sottile tra realtà e sogno con sussurrare chitarre, mentre Noah disegna affreschi elettronici eterei e quasi fischiati in un primo momento, per poi dettare con la voce pacata di Steve che pare accarezzata da soffici venti di fine estate : il marchio di campionamenti e delle keys è ormai padrone del sound Neurosis, e la song ne è la prova.
Goccie di pioggia che arrivano dalle nubi circostanti bagnano il nostro volto di pietra, troviamo conforto, come è espresso dalla voce trattenuta di Scott, che vede le anime di chi è stato meno fortunato, alzarsi, librare nell’aria come pilotate e sorvolare silenti, l’occhio del ciclone.

“So I crawl through the hailstones
My eyes fixed on my return (oath breaker sinks low)
Time brings them all home to the eye of every storm”

Dopo dodici minuti di catarsi, vediamo la tempesta allontanarsi lentamente con Left To Wander, ma con una colpo di cosa mostra ancora tutta la sua forza, obbligatorio scatto d’orgoglio, condotto da un Reoder devastante e da un Landis che riproduce fedelmente il suono di tuoni e vento. Ma la coda del ciclone è ormai lontana, e ci permette di vedere meglio la distruzione circostante. Arpeggi distorti che si uniscono da soli, in un crescendo che ricorda il mood dei Soundgarden di Superunkown, e vanno a spegnersi nuovamente in arpeggi che prendono linfa dal suono di band come i Tortoise.
La speranza è più consistente ora, quasi mossa dalla vista di superstiti che escono da anfratti di macerie, e strabuzzano gli occhi a un sole ancora scuro e maligno, figlio di un mondo nuovo.
E arriva Shelter a riempire il cuore di educata speranza, sottile e melliflua, che incide poco a poco, per non illuderci, ancora chitarre psichedeliche e appena accennate, sorrette da piccoli campionamenti che ne concludono il suono, rendendo il tutto perfetto e uniforme, un finale imbarazzante per semplicità e bellezza, manifesto di una band che è grande con poco.
Ancora non si è consapevoli della propria salvezza, e la mente torna a quei momenti drammatici, quando la tempesta era vicina e minacciava ogni cosa, immagini sfocate di morte e distruzione, narrate da un Von Till che con voce strozzata e capo tra le mani scava nella propria mente, non più nella nostra, mentre l’atmosfera circostante è quieta come non mai, una sorta di world musica riletta in chiave oscura e malinconica. Gli ingredienti son gli stessi : arpeggi di chitarra, basso profondo, keys e campionamenti latenti, ma ogni volta, ogni volta che la band ne fa uso, lo fa con maestria e passione, senza abbandonarsi mai a ripetizioni, ma costruendo arabeschi sempre nuovi con gli stessi mezzi di sempre, come solo le stirpi superiori sanno fare. Anche le consuete deflagrazioni della band cambiano di volta in volta, a volte anche all’interno della song, piccoli particolari che fanno invece tutta la differenza di questo mondo. Nuovamente le immagini delle anime che salgono al cielo invadono la mente, in un ricordo che dura effettivamente nove minuti e più, ma che dentro, rimane per sempre, quasi a scongiurare una perenne Season In The Sky.

”The leftovers were playing with my memories of love
I screamed at my god and he let me go
I drifted silently to the desert and began to pray
I came to a pile of ashes and sifted through it looking for teeth
A snake spoke through me again
But I could not heal their wounds”

Si ritorna al presente, ma con uno sguardo rivolto al passato soprattutto a livello concettuale, con Bridges. Parlai di ponti costruiti e ponti crollati in The Word As Law e Souls At Zero, ed ecco che si presentano nuovamente, in un rimprovero dalle tinte delicate, preso in braccio da tocchi di piano di classe cristallina, mentre in lontana percussioni ossessive ma poco rumorose fanno da contorno a tappeti spaziali dal sapore Floydiano. Un vento leggero spazza i nostri pensieri e l’ordine torna nella mente, e di chi ci sta di fronte. Ormai è inutile tornare indietro, ogni legame è stato reciso, ogni ponte abbattuto, ed è inutile riparare quelli che portano a luoghi di desolazione e solitudine, necessario è invece crearne di nuovi verso i luoghi dove ancora risiede la speranza. Per chi ci sta di fronte è difficile da accettare, e ci guarda in maniera assente : a testimone di ciò piccoli rintocchi e visioni di piano ci scrutano, e allora la pazienza viene meno, quando subentra il nervosismo, messo in scena da un muro di riff liquidi, senza alcun intervento ritmico, che si presenta invece nel finale, come uno schiaffo in pieno volto, sofferto, ma necessario, per spalancare la vista di chi non vuole vedere.

“You'll drag your house down, when truth comes calling at your door
Stare through the misty wonder, the life of men's souls
Your cup is empty and you are running out of time
Caving your head in, don't dare to dream it will implode”

Un sorriso abbozzato e un arcobaleno all’orizzonte suggellano il momento.
Ed ecco sopraggiungere l’ abbraccio tanto sospirato di I Can See You. Una dolce poesia di blues acido e minimale, dove keys lontanissime abbozzano un nero che non tornerà , ma sempre da temere e conoscere.
E Scott che canta la sua sommessa felicità, rivolta verso un amore che è simbolo di vita e rinascita.

“In the oceans we can find you
For the sun we praise your name
In the dirt we pray for god to bring you back again
I can see you, I can see you
In the void the stones are turning and turning and turning”


Neuros

giovedì 13 novembre 2008

Neurosis - Sovereign (ep)



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Anno: 2000 Etichetta: Neurot Recordings

Line-up:
Steve Von Till : Guitar, Voices, Percussion
Scott Kelly : Guitar, Voices, Percussion
Dave Edwardson : Bass, Voices, Moog Synthesizer
Noah Landis : Keyboards, Sampling, Sound Manipulation, Voices, Engineer
Jason Roeder : Percussion, Drums


Tracklist:
1.Prayer
2.Offering
3.Flood
4.Sovereign

Capita spesso di essere sommersi dal quotidiano, di dimenticare ciò per cui al mattino si mise la testa fuori dal cuscino, le grandi cose, le piccole cose.
Nella mente c’è un viaggio sempre desiderato, ma forse perché lontano o vicino all’utopia, si tende ad accantonarlo.
Poi tutto di un tratto si trova un vecchio biglietto per partire, coperto di polvere, ma ancora valido, non è un’ultima chiamata, ma da adoperare nel momento giusto, giusto per l’animo, per la mente, per il cuore. Un biglietto a prezzo stracciato, un vero affare.
Il biglietto che presento io è vecchio di sette anni, ma nonostante i segni del tempo, la carta è ancora integra, intrigante, e si può sentire il profumo del mistero, dell’avventura che sta dietro ogni viaggio. Un biglietto che porta ai Neurosis.
Un biglietto che presenta ogni tappa del loro viaggio, in quest’ordine : acustica, elettrica, rumore, sunto.
L’ep, primo lavoro del combo di Oakland sotto la loro Neurot Recordings incarna la loro definitiva evoluzione. Dopo la triade e un album di transizione come Times Of Grace, Sovereign è la nuova anima dei Neurosis. Dopo la strabordante ferocia bilaterale di Through Silver In Blood non si poteva esasperare il suono, allora lo si è spogliato, con ToG per poi rivestirlo di una nuova veste.
Prayer non lascia seconde considerazioni, inizia come recitata, come una preghiera dalla sorella di Steve, che presta le sua voce alla band del fratello, che compare dalla nebbia, così come fece su Away nel precedente album, e come sciamano si divincola tra gli arpeggi di chitarra, che cerimoniali scorrono, e l’unica scossa che muove la terra, è data proprio dalla sua voce, capace di fare il bello e il cattivo tempo, un mare impetuoso che improvvisamente diventa bonaccia, ma senza preavviso ritorna a infuriare per abbattersi sulla costa. E’la violenza insita nella band, ora non più divisa tra lato fisico e psichico, ma batte sempre su quest’ultima parte, non un riff, un rumore, ma la tensione è palpabile, è presenza.
Se questa era la parentesi acustica, si è consapevoli che An Offering non sarà una passeggiata, infatti i brevi campionamenti iniziali non sono altro che una farsa che apre riffing mai così doom nel loro incedere, cupi e dilatati, massicci, neri. Dove le brevi parentesi sono solo le vie di fuga per la luce, che morirebbe in tutto quel buio. Nel finale scorie malefiche di drone elettrico sono una mannaia che lacera l’aria, che inizia a divincolarsi tra le correnti e menare fendenti con le chitarre assassine di Scott e Steve, mentre Noah disegna in sottofondo scenari di sporchissimo gelo.
Ed ecco che arriva il loro modo di intendere il rumore, Flood, lande ghiacciate che disturbano i sensi, che penetrano nel profondo, mentre la batteria di Jason severa scandisce il tempo.
E’ la loro Giudecca, ma non c’è Lucifero alcuno, questa tortura interiore basta. E avanza.
E come promesso, nel finale arriva il sunto di questo ep dal valore di un album, vuoi per le canzoni che lo compongono, vuoi per la loro singola durata e quella totale, che supera la mezz’ora di inediti, vuoi per la qualità elevatissima che i tristoni di Oakland come sempre propinano.
In Sovereign si chiude la strada iniziata appunto con Road To Soverignty, traccia di chiusura di Times Of Grace, Sovranità, strada che porta…al sovrano.
La chiusura è il sunto di tutto quello sentito in precedenza, 15 minuti di maestria, di forza, di potere dimostrato sotto ogni forma, non c’è spazio per etica alcuna. Ancora un suono doomoso, il basso di Dave in primo piano, Noah che impazzisce dietro la consolle a disegnare scenari psicotici e lussuriosi, di malsano piacere, è il 35° canto lo scrivono loro, inghiottono tutto, Inferno e annessi, perché niente fa più paura di quello che sta dentro di noi, che è vero, ci conviviamo, e ancora una volta, loro conoscono bene questo buco nero:

“Faith in this will bring us all to her
We will know and feel all that is real”

Neuros

mercoledì 12 novembre 2008

Neurosis & Jarboe - Neurosis & Jarboe


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Anno : 2003
Etichetta : Neurot Recordings

Tracklist:
1. Within
2. His last words
3. Taker
4. Receive
5. Erase
6. Cringe
7. In harms Way
8. Seizure


Line-up:
Jarboe : Vocals
Scott Kelly - guitar
Steve Von Till - guitar
Dave Edwardson - bass guitar, synthesizer
Noah Landis - organ, piano, samples
Jason Roeder - drums
Josh Graham - visuals



Una parentesi che tralasciai a posta, perché a se stante, da considerare unica nel suo genere, e per questo isolata dal resto della discografia dei Neurosis. Passarono appena due anni dall’uscita dello psichedelico e mastodontico A Sun That Never Sets, e un nuovo full-length era in arrivo, ma la band di Oakland, non paga di ciò, scelse comunque di realizzare, forse più per amor proprio che per amore dei fan, un album unico, mettendo per un attimo da parte le voci di mille demoni rappresentate da Scott e Steve, chiedendo umilmente la collaborazione della demonessa per eccellenza, della loro musa ispiratrice, niente meno che Jarboe.
Proprio lei, la voce degli Swans di Michael Gira (suo compagno anche nella vita), una delle donne che hanno fatto della voce uno strumento, capace di mettere a nudo l’animo umano.
Dalla svolta dei Neurosis, esplosa definitivamente con Souls At Zero, la sua influenza è stata fondamentale, e proprio grazie a quell’album le due entità vennero a contatto. Jarboe sentì un loro brano, trasmesso da una radio indipendente (bei tempi penso io, ma anche bel posto gli States), e ne rimase impressionata, contattò la band e da quel momento rimasero in stretto contatto, un rapporto di amicizia allievo/maestro, fatto di rispetto e ammirazione reciproca. Finalmente, arrivò così la collaborazione, fatta di jam session della band, arrangiate poi dalla signora Jarboe in base ai suoi sinuosi, austeri e solenni arabeschi vocali. Il suono? Niente di più semplice, la psichedelia di ASTNS, il minimalismo frutto del processo compositivo del successivo The Eye Of Every Storm naturalmente, l’influenza della signora Gira, quindi un dark-industrial dalle tinte tribali, con forti accenni psichedelici.
L’album si apre con Within, introdotta da un suono che più spaziale non si può, in quanto ricorda un motore in partenza, per chissà quale siderale destinazione, e l’alieno che è nella band esce allo scoperto, con tribale ritmo di batteria, e campionamenti che si sdraiano uno sopra l’altro.

“I tell ya, if God wants to take me He will - He’s coming . . . “

L’inizio è dei più belli e apocalittici mai sentiti, prima i sussurri che non lasciano speranza e ripete questo verso all’esasperazione, poi brevi frase intonate con una voce che è dell’angelico, ma è tutta finzione, perché poi il basso di Dave subentra e benvenuti a un martirio sonoro tribal-industriale.
E il finale è ancora suo, di Miss Jarboe, che sa incantare con la sua voce.
Lei è capace di sotterrare l’anima dell’ascoltatore sotto strati di emozioni suscitate, che si alternano nel giro di pochi secondi, che vibrano al cambiare della sua ugola.
E allora spazio ai sussurri elettronici di His Last Words, dove la sua voce soffusa e filtrata arriva lontana e delicata, con i ricami elettronici di sottofondo, un semplice contorno alle chitarre che suonano leggere e ovattate, non ostiche come ci hanno insegnato i Neurosis. E aleggia sempre, la presenza dei Nine Inch Nails di Trent Reznor, quelli di Downward Spiral per essere sinceri.
Gli effetti finali della canzone portano a Taker, aperta da leggeri arpeggi chitarristici che suonano molto shoegaze, e timida ma sensuale Jarboe, si muove leggiadra come un predatore che fiuta la sua preda, e danza intorno a questa, ripetendo nella sua mente

“I don't care about yours
I'll eat you alive
It's up to you to push me out
I'll just keep taking
It’s the law of the jungle
EAT OR BE EATEN
EAT YOU ALIVE
And I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take and I take an a mal an a mal an I mal an I mal an I mal an I mal an I mal ANIMAL ANIMAL ANIMAL ANIMAL ANIMAL ANIMAL ANIMAL”


Il rumore di sottofondo è la giungla che si anima quando il predatore afferra alla gola, e uccide.
Receive è strettamente legata al sound della sua band più importante, riportando alla mente le escursioni apocalittiche che poi i Neurosis presero come loro e le portarono in un contesto più violento, ma la matrice folk è la medesima, intimista e secca. Un piccolo spazio di tranquillità dove abbandonarsi ai propri pensieri, cullati dalla voce di Jarboe. Ma la musica cambia presto quando arriva Erase, che parte distorta e ipnotica, accenni di riff strozzati, con la sua cantilena in sottofondo, e la batteria di Jason che da il la alle danze, una base chitarristica rumoriste, e la miss che cambia le carte in tavola, cancellando, come dice il titolo, ogni cosa, con una prestazione vocale al vetriolo, capace di far impallidire una qualsiasi vocalist metal moderna, pizzicando il sistema nervoso e giocando a nascondino la nostra psiche, inibita dai loops sintetici di Noah.
Cringe è una pausa sintetica e incalzante, dove la voce di Jarboe prende forme astratte, poche parole, molti respiri e sussurri, incastonati in suono freddo e siderale. E le tastiere del finale sono di un’infinita bellezza, eterre, intime, ricordano i capitoli più belli dei Sigur Ròs, non quelli di Takk.
Un album dal potere inibitore elevatissimo, capace di lasciare il segno nonostante non porti con se una tale violenza sonora da permetterlo, ma a questo loro non badano, né i Neurosis né Jarboe, che hanno fatto della violenza psichica la loro arma migliore, lontani dai decibel, dalle cieche sfuriate, loro picchiano, martellano, pungono silenti e costanti, come un metronomo.
E il crescendo finale di In Harms Way e quanto di più vicino ci sia al sound neurotico, un lento sabba crepuscolare, gelido e cerimoniato dalla sacerdotessa Jarboe.
E il tutto si chiude con gli undici minuti di Seizure. Ritorna il folk minimale, ritornano campionamenti distorti e giri elettronici siderali, una summa di tutto quello che hanno fatto nell’album, e una summa delle caratteristiche più visionarie dei due artisti in questione, con la voce di Jarboe che è un sogno, soave, che duetta con Steve, raggiungendo un pathos impressionate, un suono che diverrà fondamentale in TEOES, che dolcemente entra sotto la pelle per non uscire più, capace di dischiudersi lentamente e propagarsi, che vorrebbe esplodere, ma non riesce, che trova il vuoto, in fondo al cuore

“I'm naked and I'm empty
But I can't absorb this void
Even as I sleep
I feel you at my heart”

Neuros

Neurosis - A Sun That Never Sets



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Anno: 2001 Label: Neurot Recordings

Tracklist :
1. "Erode" – 1:49
2. "The Tide" – 8:49
3. "From The Hill" – 9:26
4. "A Sun That Never Sets" – 4:59
5. "Falling Unknown" – 13:11
6. "From Where Its Roots Run" – 3:42
7. "Crawl Back In" – 6:50
8. "Watchfire" – 8:27
9. "Resound" – 1:26
10. "Stones From The Sky" – 9:46

Line-Up :
Scott Kelly - guitars, vocals, percussions
Steve Von Till - guitars, vocals, percussions
Dave Edwardson - bass guitar, synthesizer, vocals
Noah Landis - organ, piano, samplers
Jason Roeder - drums
Josh Graham - visuals

Un sole che non sorge mai.
La speranza resa vana dalle aspettative future rivelatesi fallimentari.
E non possiamo far altro che perderci nella luce crepuscolare che esso emana.
Consci che nessun raggio bagnerà più i nostri giorni che inesorabili scivolano via, lontani.
Il cammino inesorabile della vita che ci vede allo stesso momento registi e spettatori non paganti.
Tutto questo è A Sun That Never Sets, il settimo album in studio di quella entità musicale capace di trascendere tempo e spazio, che prende il nome di Neurosis. Dopo l’oscurità pregna di impotenza e catartica osservazione del nostro animo, posta in musica dalla Triade, un’elevazione spirituale che ci riporta dopo tanto salire a una infernale discesa, riportandoci alla terra che aveva accolto la nostra nascita con il monolitico Times Of Grace. Ed è questa la via che la band decide di intraprendere con questa ennesima realease. Scegliere una nuova visuale, una visuale terrena comprensibile per l’uomo, scrutare dal basso l’enormità della volta celeste che si erge al di sopra delle nostre teste, che assiste alle nostre azioni, e non giudica, mai.
La collaborazione con il guru Steve Albini prosegue inesorabile, connubio perfetto voluto da entrambe le parti, capace di dare vita a mausolei sonori di rara bellezza, dinanzi ai quali ci si può solo prostrare, in ginocchio, chinare il capo e stringerlo tra le mani, in segno di resa e disperazione.
Il sound è legittimo figlio dell’evoluzione cominciata con Times Of Grace, ma riprende quel carattere buio che fece grande un capolavoro come Through Silver In Blood. Si parte quindi da una alleggerimento della struttura delle song, ma questa volta l’operazione risluta meno evidente e maggiormente omogenea, visto l’arricchimento della sezione orchestrale, magistralmente portata avanti da un Noah Landis che diventa davvero colonna portante della band, tassello essenziale nel mosaico Neurosis, che ora da sestetto si muove, grazie al contributo visivo di Josh Graham, che fondamentale per donare fisicità alle song in sede live e su video, grazie alle sue immagini forti e ipnotiche, segno che la creatura neurosisiana, oramai trascende qualsiasi schema conosciuto.
Si parte con Erode. Come avvenuto su Times Of Grace, ci viene presentata una strumentale che è di straniante bellezza. Ambient minimale che si muove come una serpe su ritmi cadenzati di percussioni e batteria, mentre Landis da libero sfogo ai demoni che risiedono nella sua mente, attraverso passaggi disturbanti e cesellati, piccole schegge che penetrano nella pelle per non uscire piu. Ed è in questo modo che si apre l’angosciante The Tide. Un crescendo acustico processato dalla voce di Steve Von Till che riesce a pizzicare le corde nascoste che risiedono all’interno del nostro animo, smuovendoci dentro, liberandoci dal rumore che alberga all’interno di noi, liberandoci dal rimbombante silenzio del cosmo. Violini soffici come piume al vento ci fanno strada all’interno della song, mentre flanger spaziali di sottofondo disegnano scenari di bellezza impercettibile, sussurrata all’inizio, ma che lentamente alza la voce e si alza, come la marea nelle notti di plenilunio quando regna la quiete e il cielo ci sorride beffardo. Le orchestrazioni di Noaha camminano mano nella mano alle chitarre di Scott e Steve, mentre entrambi si dannano alla disperata ricerca della voce del mare, che continua a sollevarsi, fino a sommergere ogni cosa.
Tutto mentre rintocchi di campana paiono segnare una lenta marcia versi gli abissi dell’oblio.
Una risultante di forze differenti e contrastanti, ben espresse nella monumentale From The Hill.
Da una parte la dannazione perenne inscenata dalla straziante preghiera di Scott, dall’altra parte, in un perfetto ossimoro sonoro, il vuoto totale della paste strumentale, poggiante su sfuggevoli distorsioni di chitarra e con soli di batteria e basso ad accompagnare questa marcia funebre che viene gelidamente accarezzata da cornamuse che scolpiscono nella mente nuovi paesaggi solitari e graffiata in maniera gelosa da chitarre che crescono con la massima imponenza e non curanza della pace circostante. Pace nuovamamente stuprata dal cucù iniziale della title track. Verrebbe da ridere se non si sapesse di avere a che fare con una band che non fa dell’allegria la sua arma principale, ed ecco a conformare le nostre certezze (come se ce ne fosse ancora bisogno) l’andamento decadente della song si mostra in tutta la sua durezza, ma per la prima volta Scott e Steve adagiano le loro clean vocals sopra uno spesso tappeto di chiatarra e non sopra soavi arpeggi acustici : manna dal cielo. Una capacità emotiva inaspettata ma quasi desiderata, a voler mostrare che non le anime della band non sono scisse e inconciliabili, ma anzi, forti di un incastro che rasenta la perfezione.

“A sun that never sets burns on.
New light is this river's dawn.”


Ogni essenza che si unisce ad un’altra, costruendo una barriera sempre più difficile da infrangere. E non osiamo neanche, incantati dalla ninna nanna di Falling Unkown : 13 minuti di poesia pura.
Carezze chitarristiche minimaliste si alternano a riff meditati e introspettivi, non più atti a deflagrare per fare male, ma quasi con una funzione filosica, atti a far meditare, come se fosse Freud stesso a insinuarsi nelle acide note della song e condurci verso i meccanismi più reconditi della nostra mente, a risolvere l’opposizone tra il nostro Io e un Super-Io proveniente da più fronti, capace di schiacciarci dall’interno, cibandosi delle nostre paure, e dissanguandoci dall’esterno, fortificato dall’egoismo delle masse che come anime possedute danzano lentamente intorno a noi. Danzano guidate dal ritmo post-rock che torna in seno alla band dopo una breve apparizione sul precedente album, andamenti ipnotici e acustici che diverranno il marchio di fabbrica dei Red Sparowes e degli ultimi Isis, ma i maestri sono loro, e lasciamo che il loro concerto continui indisturbato, chiudendosi in una finale epico all’inverosimile.

“With the wind at your back and the light in your eyes,
the freeze of your blindness will show.
Under the cloud cover, the flares signal change.
Will you ever know?
The fields they are burning, the smoke chokes your breath.
Will you stand or run?
You dream of a mountain, the peaks rise to the sky.
Will you answer its call?
Is your heart still beating? Can you feel this at all?
This landslide will bury us all.
With the storm on your mind and the clouds in your eyes,
will you survive?
Lie in wait, I will lie awake.
Falling through a world unknown.”


Legarsi indissolubilmente alla terra, e quale titolo è migliore per sancire questo legame di From Where Its Roots Run? Nessuno, infatti. Un ritmo tribale che riporta ai tempi di Enemy Of The Sun, sopra il quale si staglia il sermone di Steve Von Till, e in secondo piano il ballo rituale di Scott.
Si rimane a bocca aperta dalla freschezza che trasuda una song come Crawl Back In, aperta da riff non cupi, ma aperti e pregni di una luce lontana, ma sempre di luce si tratta, e non si può contestarla. Il mood è di quelli che si inculcano nella mente per non lasciarla più. Una confessione di un cuore che vuole liberarsi di un peso insostenibile, che fa male e sanguina, in maniera composta e silenziosa, aprendosi al pianto solo nel finale, quando le chitarre di Scott e Steve creano il giusto momento per lo sfogo. Un finale ispido e severo, crudo e sui denti, che si contrappone all’assordante desolazione di Watchfire. Riemergono le influenze soliste dei due leader della band, capaci di disegnare fumose immagini di introspezione che poggiano su Nick Cave e Johhny Cash, su Michael Cashmore e sull’isteria di Thom Yorke, relegano l’eplosiva essenza Neurosis a mirati frangenti di cattiveria controllata, che si protraggono fino allo spoglio finale della song.
Campane e batteria, ci portano verso la piccola pausa di Resound che volenti o nolenti, fa il verso al sound di Blood Inside degli Ulver. Lenta e martellante, senza spendere una goccia di sudore, ci porta alla suite conclusiva che prende nome di Stones From The Sky.
A guidarci verso un altipiano brullo a mirare il cielo è Scott Kelly, che riporta nella song tutta la passione verso il folk apocalittico riversata nel lavoro solista Spirit Bound Flesh, una song tra le più belle mai scritte dal combo, che cresce inesorabile e porta alla contemplazione, sorretta da flauti che portano la mente alle notti dei beduini nel deserto, che scrutano il cielo in cerca di un segnale propizio per un futuro incerto. Quasi dieci minuti da respirare a pieni polmoni, e lasciarci inebriare dal profumo caldo che sprigiona la song, mentre il sole finalmente sorge, ma non dinanzi ai nostri occhi, bensì all’interno della nostra anima.

“Sun of my soul be revealed. Walking amongst the stones
from the sky, feeling their rhythm wash over me


E tutto si finisce nei disturbi della frequenza causati dalla tempesta circostante, ma noi siamo al sicuro, non si sa per quanto, nell’occhio del ciclone che severo ci avvolge.

Neuros

martedì 11 novembre 2008

Neurosis - Times Of Grace


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Anno: 1999 Label: Relapse Records

Tracklist:
1. "Suspended In Light" – 1:59
2. "The Doorway" – 7:35
3. "Under The Surface" – 8:37
4. "The Last You'll Know" – 9:14
5. "Belief" – 5:56
6. "Exist" – 1:41
7. "End Of The Harvest" – 7:29
8. "Descent" – 2:57
9. "Away" – 9:35
10. "Times of Grace" – 7:11
11. "The Road To Sovereignty" – 3:53

Line-Up:
Scott Kelly (guitars, vocals, percussions)
Steve Von Till (guitars, vocals, percussions)
Jason Roeder (drums, percussions)
Dave Edwardson (bass, voice, moog)
Noah Landis (keyboards, samples, tapes)
Pete Inc. (live visual media)

Esperienze.
Fanno tutta la differenza di questo mondo.
Chi non è capace di guardare oltre, relazionarsi con altre realtà, evolversi, è destinato a sparire.
Figli di un Dio minore, i Neurosis hanno fatto dell’evoluzione la loro arma principale, e pochi altri hanno saputo raggiungere l’aulicità del loro processo. Dopo esordi acerbi e di rabbia come Pain Of Mind e The Word As Law, dopo la Triade imprescindibile (Souls At Zero, Enemy Of The Sun, Through Silver In Blood) che li vide mutare pelle e incarnare un’essenza superiore, ecco che la strada vira nuovamente, verso nuove direzioni, delle quali neanche loro conoscono la metà, ma sanno che la porteranno lontano, dove l’argento di Through Silver In Blood si tramuta in polvere cosmica, un pulviscolo stellare che pervade l’animo, da sempre l’universo più angusto e insidioso che esista, un universo al quale non tutti possono accedere. Se non ti chiami Neurosis.
Evoluzione quindi, e da dove iniziare se non dalla cabina di regia? Billy Anderson fece un lavoro notevole dietro Enemy Of The Sun e Through Silver In Blood, ma la band era insaziabile e decise di affidarsi a un guru musicale delle scena alternative, una figura che stesse vicino al sound della band, qualcuno che spingesse oltre le loro visioni, qualcuno, come Steve Albini. L’album, registrato nei suoi Electrical audio recording di Chicago nell’ottobre del 1998, fu la prima collaborazione tra i due pesi massimi, un’alchimia viscerale e quieta, atta a curare ogni minima sfumatura, e i risultati che andremo ad analizzare, beh, li sentirete da voi, ma fidatevi se Steve fece pressione alla aband per poter produrre i successivi capolavori, e la band dal canto suo, non chiedeva altro.
A un ascoltatore distratto, il percorso intrapreso da quest’album potrebbe rappresentare un involuzione per la band : niente di più sbagliato. Non perdersi, in una musica che fa perdere di suo. Ecco il nuovo intento della band. Sarebbe stato controproducente imbastire un Through Silver In Blood part.2, una scelta che avrebbe portato la band all’autocompiacimento e la stasi artistica. Allora come procedere? Semplice : snellire il sound. Non lasciatevi ingannare, le composizioni sono sempre di una pesantezza asfissiante, ma meno stratificate, a favore di una pischedelia mirata e melliflua, coadiuvata sempre maggiormente da parentesi atmosferiche di nero respiro. Gli spigoli vengono smussati e il tutto diviene un tondo andamento di logorio nervoso. Se il precedente album, pareva innalzarsi al cielo, questo poggia saldamente sopra la terra che ogni giorno calpestiamo.
Si pesta la nuda terra, già dall’intro Suspended Light, un angolo di ambient e psichedelica, che si regge su keys, effetti e basso, con leggeri tocchi di percussioni a scandire il tempo, che lento, passa inesorabilmente, sopra le angosce del nostro tempo. Un tempo che nelle nostre mani trova rifugio e compimento, protetto dalla fisicità di The Doorway. La mano di Steve dietro la consolle si sente eccome, le chitarre sono più grezze, dal gusto “rurale”, ma non per questo meno graffianti, anzi, senza indugiare squarciano il velo di Maya che imprigiona la realtà, per mostrarci la via da seguire. La song incide come una lama sempre nello stesso punto, ora ritmata, ora lenta e sulfurea, mentre echi metallici in sottofondo rendono il tutto scarlatto e pregnante di zolfo. Nel finale un vortice di basso e percussioni ci riporta indietro a Enemy Of The Sun, quasi a voler ribadire le radici terrene dell’album, e in distorsioni roboanti, si chiude la song. Ma non c è un attimo di tregua perché riprendendo il finale della precedente, arriva una delle song (a parere del sottoscritto la migliore) più belle di tutte della storia dei Neurosis : la possente Under The Surface. E cosa si trova sotto la superficie? Fredda terra, richiami di defunti sepolti, e tanto, tanto dolore soppresso. La song scivola possente sopra il ritmo tribale di base, ma esplode in maniera secca e viscerale, con riff che faranno la futura fortuna dei Mastodon. Il suono di chitarra non è più glaciale e si distacca da quel mood industriale che aveva caratterizzato i lavori della Triade. Se dovessimo attribuire una colore a questo, sicuramente sarebbe una tonalità di marrone : a volta chiaro, quando batte la luce del sole, ma nella maggioranza dei casi, scuro, e dai riflessi rossi, quando le profondità della terra ne fanno da padrone.

“Your shell is hollow, so am I
the rest will follow, so will I

Si placa nuovamente e riprende vigore di lì a poco, decantando la propria frustrata speranza. Speranza resa vana dal sopraggiungere di The Last You’ll Know.
Magnificenza assoluta, imponenza sovrana. Strutturata in maniera semplice, ma sorretta dal duetto vocale Kelly-Von Till e dalle cornamuse di Landis, si tramuta in una lenta cavalcata epica, che fa viaggiare la mente per paesaggi lontani e brulli, dove i violini ricamano arabeschi autunnali, che portano a sentire la caduta delle foglie sopra le nostre teste, dimenticando l’inferno sonoro che accade in secondo piano. Ed ecco che un nuovo intermezzo ambient riporta la quiete, cullato da effetti stranianti, che vanno a formare l’impalcatura per la deflagrazione finale. Rumorista e maligna, pare uscita da un qualsiasi album di black metal grezzo.
Malignità che si fa angoscia in Belief. Un crescendo ipnotico che implode in se stesso, senza fare rumore, una danza psichedelica e minimale, dove è la voce di Steve a fare da padrona, poggiante sopra le tastiere di Noah, il basso di Dave e piccole schegge di chitarra da lui stesso lanciate, mentre Scott da man forte al lavori di Jason alle percussioni. Una litania di rassegnazione e auto-commiserazione che si protrae strisciante dentro di noi e solo negli ultimi secondi prende vigore, come a voler dimostrare che la rabbia non è sopita, ma viaggia silenziosa all’interno di noi.
Una piccola oasi di calma viene imbastita da Exist, dove i richiami al post-rock più cupo sono evidenti, poche note di solitudine ripetute senza tregua, che vanno a spegnersi su loro stesse creando un ponte con la successiva End Of The Harvest. Psichedelica e minimalista, non nasconde i richiami ai Pink Floyd dell’era Barrett e Waters, infondendo una sensazione di sciagura imminente. E infatti al solito arriva a schiaffeggiarci e svegliarsi dai nostri sonni, un turbine di sabbia che pervade i nostri polmoni e vuole soffocarci, come pare essere la voce strozzata di Dave, presente anche lui in questo frangente, che silenzioso si spegne nella quiete che band come Explosions In The Sky sa donare, ma questi ultimi non si avvicinano minimamente alla violenza sprigionata nel finale dal combo di Oakland. Una fiera che ringhia, digrignando i denti, come appare nell’artwork.
E Descent ci accoglie, sola e arrendevole, dopo tanto peregrinare, forte dei suoi forti toni celtici, che spalanca dinanzi a noi lande desolate e brulle, prati infiniti battuti dai freddi venti del nord, dove lo sguardo si perde, ed è lecito commuoversi.

“Cease this long, long rest
wake and risk a foul weakness to live
when it all comes down
watch the smoke and bury the past again
sit and think what will come
raise your fears and cast them all away”

E Away è la summa di tutto ciò.
Una baracca di legno, con un arredamento scarno, essenziale. Un tavolo spoglio dove appoggiare le proprie poche cose, e soprattutto una bottiglia di Scotch, da versare nel piccolo bicchiere, per stemperare la solitudine che regna in noi. Una sedia dove poggiare le proprie speranze future e farle riposare, in vista di tempi più bui, mentre lo sguardo si perde nel fumo della sigaretta, che aspirata delicatamente dona un senso di pace e tranquillità, mentre un fuoco acceso nel camino dietro di noi scalda il nostro corpo e la nostra anima, mentre fuori, imperversa la bufera. Sono le sensazioni che danno solo i dannati come Neil Young e Nick Cave, e i Neurosis le fanno loro, in una parentesi di nove minuti dove tutto è giocato su sussurrati arpeggi di chitarra e la calda voce di Steve, menestrello accogliente e dannato, che nel finale prova a dare sfogo alla sua rabbia, ma non riesce, poiché sfiancata da tanto errare.
Ed ecco la tempesta si placa e il viaggio ricomincia, più austero che mai, insidioso come solo i Neurosis sanno fare, con la title track : doom sepolcrale e martellante, vocalizzi beceri e pause ingannatrici, in un’altalena che colpisce come un pugno allo stomaco, ma imperterriti si va avanti, feriti e logorati soprattutto nella mente.
E dopo tanto viaggiare, esausti e sull’orlo di una crisi, ecco il sentiero tortuoso si apre in un’ansa di pace dove, alla base di un albero, si può definitivamente riposare, questa volta per davvero, cullati dalla calda melodia di The Road To Sovereignty. Si ricorda il viaggio, le fatiche, mentre il lontananza trombe e violini elevano il nostro spirito e ci perdiamo in un sonno profondo e ristoratore, mentre un piccolo sorriso nasce sul nostro volto. Rigenerati apriamo gli occhi e volgiamo lo sguardo al cielo, per ammirare, un sole che non sorgerà.
Così inizia il nuovo tragitto, e come il precedente non si sa dove porterà, ma di una cosa si è sicuri, che sarà in salita, come ormai ci hanno abituato i Neurosis.

Neuros

Neurosis - Through Silver In Blood


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Anno: 1996 Label: Relapse Records

Tracklist :
1. "Through Silver In Blood" – 12:11
2. "Rehumanize" – 1:46
3. "Eye" – 5:17
4. "Purify" – 12:18
5. "Locust Star" – 5:48
6. "Strength Of Fates" – 9:43
7. "Become The Ocean" – 1:27
8. "Aeon" – 11:43
9. "Enclosure In Flame" – 10:19

Line-Up :
Scott Kelly (guitars, vocals, percussion)
Steve Von Till (guitars, vocals, percussion)
Jason roeder (drums, percussion)
Dave Edwardson (bass, voice, moog)
Noah Landis (keyboards, samples, tapes)
Pete Inc. (live visual media)

"Attraverso argento nell'anima
Ci leviamo in piedi giudicati
Non da occhi di carne, quando
I tempi del transito attraversano
La visione della preda consumata"

Sempre meno corpo.
Sempre più anima.
Enfasi di un cosmo che ognuno racchiude all’interno di sé.
Questo è Through Silver In Blood.
Registrato da Billy Anderson ai Brilliant and Coast Studios di San Francisco, Through Silver In Blood è il quinto full-length ufficiale dei Neurosis e in maggioranza assoluta è definito l’opera somma della band.
Nonostante realtà come il Death, Black e Thrash Metal fossero oramai affermate da anni, già Souls At Zero suonò come un campanello d’allarme nell’estremismo sonoro. Ed ecco che questa nuova opera del sestetto di Oakland sposta un gradino più avanti la concezione di estremo. Una violenza non fine a se stessa, né fisica, bensì morbosa e cerebrale, e nella musica pochi sono i paragoni che posso fare in questo ambito, ovvero Swans, Godflesh, My Bloody Valentine, Converge, Tool e pochi altri.
Curioso come silente e assassino il 1996 vide l’uscita di due album che segnarono l’avanguardia sonora : il masterpiece dei Neurosis e quello dei Tool, Aenima.
Un’intensità estrema e omogenea, ma non per questo priva di sfumature udibili solamente dopo decine di ascolti davvero attenti, un po’ come accade per il caleidoscopio sonoro che prende il nome di Focus dei Cynic.
Album dalla portata enorme, del quale si accorse la Relapse, che strappò la band dall’underground dell’Alternative, che scalzò definitivamente la Earache e portò il combo nell’olimpo della musica, donandole la visibilità meritata con determinazione, tirando fuori le unghie e sputando sangue, sangue che ora caccia chi ascolta i loro lavori. Ci addentriamo così in un universo mai così buio ed etereo, dove le caratteristiche della band trovano la loro perfetta dimensione, sempre più pregne di fughe dal sapore ambient, opera del nuovo membro Noah Landis e arabeschi acustici che portarono a coniare un termine per definire il sound della band, overro “apocalyptic folk”.
L’album si apre con la title track, così come si era chiuso Enemy Of The Sun, ovvero con un ritmo tribale trainato da percussioni e synth di sottofondo, che pare portarci alla scoperta di una foresta nel cuore della notte, echi di sottofondo si fondono con distorti arpeggi di chitarra, Roeder ormai è una granzia alle pelli, ma da quest album in poi le percussioni sono anche frutto dell’immenso lavoro della coppia Kelly-Von Till. Subentrano riff infetti e glaciali, sostenuti da un Jason mai così preciso ed efficace, mentre sottili polveri industriali si spargono nell’aria, in una continua progressione tra monolitici riff e armonie velenose. Mai i Neurosis hanno imbastito una tavola così ricca di sulfuree pietanze, e loro, da conviviali antichi declamano il nostro dissolversi, come bene evidenziano le quattro righe che introducono questa recensione. Distorsioni disturbanti ormai sono arma sanguinante della band, in quanto utilizzate per ferire anche nei precedenti lavori, ma continuano a sorprendere e far male, preludio di un finale che riprende il ritmo d’apertura, ma in maniera maggiormente frenetica e vorticosa. Più di dodici minuti di oblio.

“Bleeding one
Bleed alone
Breeding love”

La piccola parentesi campionata di Rehumanize, non fa altro che far crescere in maniera inesorabile la tensione, che sfocia inesorabilmente nei ritmi sincopati di Eye, song che riporta direttamente ai primi veri esperimenti sonori di Souls At Zero, tanto è grezza e deviata nel suo incedere. Frenesia messa in musica, disperazione e crudeltà.

“Our destiny awaits
Survival of our wrath
The frigid apparition
Waits silently transcendent”

I rumorismi che escono dalla chitarra di Steve altro non fanno che rendere l’atmosfera più claustrofobica possibile, rallentando quando necessario il mood della song, con echi che fanno ricordare appunto la devastante The Web, chiidendosi con sinistri echi metallici. L’ambient spaziale ci da il benvenuto in Purify, un piccolo anfratto di solitudine :

“Can you feel your fate
Can you see you're
Biding time hide
From your life”

che verrà ripreso dal lavori solisti di Scott e Steve (soprattutto da quest’ultimo); prologo che si interrompe in maniera solenne lasciando spazio a parabole malvagie disegnate da arcigni riff di chitarra, che lasciano il spazio a soffi di rumore inscenati dalle bacchette di Roeder e dal basso di Edwardson, e in sottofondo cornamuse disegnano spazi musicali stranianti e ipnotici mai uditi prima.
Un percorso mai così tortuoso, ma necessario per raggiungere anfratti spaziali dove regnano unicamente freddo, silenzio e la fioca luce delle stelle. Una più delle altre ci chiama a se, magnetica e calda, stella che guida le nostre menti e ci conduce al sapere supremo. Locust Star. Aperta da un cadenzato ritmo di percussioni, esplode in tutta la sua magnificenza, suggellata da chirurgiche schegge chitarristiche, che incidono sempre nel medesimo punto, senza perdere mai di vista l’obbiettivo, noi. Un’iconoclastia severa e nichilista che danza severa sopra le nostre teste.

“You all lower me
Christ's shine blinds
Your world
Your belief is scars”

Nel finale sono i latrati di Steve a fare da padroni, mentre in secondo piano i vocalizzi isterici di Scott, completano un quadro di perdizione e macabro piacere.
La tensione non accenna a calare, neanche con l’oscura litania di Strength Of Fates. Dolci note di piano e sussurri di synth ci accolgono con lo sguardo basso, quasi a non voler incrociare il nostro sguardo, mentre Scott narra tutta la sua frustrazione, implorando perdono e chiedendo conforto.

“On this earth - lay me down
Soil my blood - this shell will fade
Gods with eyes - i'm ready now
At the hanging tree - giver of life
Great mother heal - I will rise”

Conforto che non arriva, ma al contrario, viene rifiutato e condannato alla dannazione eterna da cadenzate chitarre e oscuri tocchi di keys. E ci si perde in un finale che è un trip dannato, una macumba dalla quale non si può scappare, e l’arrendevolezza porta a Become The Ocean, oasi buia prima del deserto di Aeon.
Un deserto battuto da una brezza leggera e suadente che prima è un piano sussurrato, poi una breve intermezzo tribale supportato dalla melodia acustica di Steve, ma la brezza ben presto si tramuta in bufera, una bufera di riff che portano via ogni cosa, che come nelle notti d’inverno si placa in pochi minuti lasciando spazio a una nuova brezza, ma echi metallici lontani ci annunciano che la calma è apparente, e una nuova folata violentissima torna a spazzare la nostra anima, sostenuta da un flavour industriale e meccanico che non fa prigionieri, mentre strisciano in secondo piano keys pompose e d’atmosfera, che portano verso luoghi siderali mai raggiunti. E all’improvviso tutto è quiete, una quiete che pervade e inibisce i sensi, portando la song a morire così come era iniziata.
Ci si aspetta un finale quieto come quello del suo predecessore, e invece no.
Through Silver In Blood mostra la sua coerenza fino in fondo. Un cammino di dannazione e dolore, di urla e silenzi. Arpeggi soffusi orchestrati dalla voce sospirata di Scott paiono un anestetico inebriante, ma a poco serve, per combattere il dolore che provocano le note sepolcrali che fanno da sostegno a Enclosure In Flame. Un retrogusto acido e doom pervade tutto il componimento, alternato alle ingannevoli pause di riflessioni, quasi come se fossero poste appositamente per pensare ai nostri peccati e liberarcene :

SIlently praying for
Enclosure within the
Flame of origin

Mai finale più azzeccato. La band ci purifica in maniera lenta e solenne, arrivando a una totale visione del nostro dolore, causa della nostra finitezza, elevandoci a status superiore, portandoci a un tutto uno con il cosmo che è in noi.
Questo è Through Silver In Blood. Espiazione e rinascita, che passano attraverso l’argento, e che possa piacere o meno, lo scopo dell’album e questo, e se alla fine di esso, sarete pervasi da una violenta emozione di tranquillità, allora la band avrà raggiunto il suo scopo, e non potrete più farne a meno.

Neuros

lunedì 10 novembre 2008

Neurosis - Enemy of The Sun

image

Anno: 1993 Etichetta: Alternative Tentacles Records


Line-Up:
Scott Kelly (guitar, vocals)
Steve Von Till (guitar, vocals)
Dave Edwardson (bass, vocals)
Simon McIlroy (keyboards, tapes, samples)
Jason Roeder (drums and percussions)
Pete Inc. (visual media)


Tracklist :
1. "Lost" - 9:41
2. "Raze the Stray" - 8:41
3. "Burning Flesh in Year of Pig" - 1:37
4. "Cold Ascending" - 4:35
5. "Lexicon" - 5:41
6. "Enemy of the Sun" - 7:33
7. "The Time of the Beasts" - 7:59
8. "Cleanse" - 26:34



Ormai non si può più tornare indietro, quel ponte instabile che aveva il nome di The Word As Law è definitivamente crollato, utile unicamente per una traversata, tornare indietro significherebbe cadere in un fiume d’oblio, senza dimenticare che dietro di noi sono anche già chiuse le porte interne dell’animo rappresentate dalla carezza disperata di Souls At Zero, la prova da superare, a fatica, tra sudore sangue e nero catrame.
Ormai la direzione è prefissata, bisogna andare avanti, ma la destinazione, quella no, quella è ignota. E allora si va, chiusi nell’abbraccio del proprio io, senza l’interferenza di niente e nessuno, guidati unicamente dal proprio deviato raziocinio.
Enemy Of The Sun vede la luce solamente un anno dopo Souls At Zero, e si porta ancora più avanti del predessore, spingendo la band in universo proprio che la vede come demiurgo. Prodotto da Billy Anderson agli Razor's edge studio di San Francisco, il full-length è un vero pugno nello stomaco. I suoni si dilatano ancora e subiscono un nuovo rallentamento, e già dall’inizio di Lost si capisce che sarà come soffocare per più di un’ora; le lievi influenze primigenie punk\hardcore presenti ancora in Souls At Zero spariscono in maniera definitiva e a guadagnarne è l grave pesantezza dell’album, sostenuto da ritmiche mastodontiche e spesso tribali, contornate dagli ormai onnipresenti campionamenti e synth, rendendo l’album nudo e crudo, di un grigiore asfissiante, un blocco unico e indissociabile da cui è impossibile sfuggire. Il tutto condito da testi che si impegnano unicamente a scavare dentro, tralasciando la realtà circostante come se per essa la speranza fosse vana, e cercando di conservare almeno la proprià identità, che si porta avanti con una rabbia inaudita, miscelata alla frustrazione verso un passato ormai defunto. Un dialogo con se stessi, mettendo a nudo le proprie angoscie e paure, relazionandosi con una collettività fatta a persona quasi, capace unicamente di ascoltare, ma senza donare il minimo conforto. Ormai il metodo è chiaro, combattere il male con il male, e la cura comincia, nella maniera più brutale, con Lost.
Un campionamento di film ci introduce nell’essenza Neurosis, un meandro buio messo in mostra con i cupi giri di basso di Edwardson e la voce disperata di Scott Kelly, vocalist magari non pulito o tecnico, ma capace di donare emozioni vere. La luce si accende, una fioca illuminazione creata dalle chitarra dissonante di Steve, ed ecco che la composizione va a formarsi con i tocchi minimali della batteria di Roeder, e la deflagrazione arriva inaspettata, a colpire le nostre orecchie, in un sali e scendi di riff corrosivi e ossessivi, mentre alla sofferenza di Scott va ad aggiungersi la frustrazione vocale di Steve, istericismo toccante e profondo. I ritmi si fanno sincopati, singhiozzanti, e un tappeto di keys fa da base al caos meditato proposto dalla band. Meditato poiché all’improvviso interrotto da eterei arpeggi di chitarra, sopra i quali poggiano un lento e cadenzato solo e un piano. Ma ecco che che le carte vengono mescolate dall’incedere industriale del basso distorto di Dave e dai campionamenti di fabbrica di Simon, ai quali vanno ad aggiungersi rimanenti strumenti in un crescendo finale di rara bellezza. Bellezza che continua nella soave ed esotica voce femminile che introduce Raze The Stray. Un inizio ipnotico dove keys profondissime e tocchi di piano soffiati creano un tappeto che porta lontano verso un sogno, che tale non è, quando subentrano gli infernali riff di chiatarra della coppia Kelly-Von Till supportati dal drumming furioso e tribale di Roeder. Un incubo che inganna, con il ritorno delle precedenti atmosfere sognanti, ma che si tramutano in un crescendo asfissiante con il basso di Dave e gli accenni di riff di Steve, che si cimenta anche ad impersonare una fiera infernale con le sue raw vocals. Una nuova altalena sonora che richiama gli Helmet degli esordi ci percuote con violenza, come se stesse cercando il momento adatto per saltarci alla gola, la tensione sale e diventa opprimente, ma non trova mai sfogo, come è giusto che sia, infatti il vero cacciatore è quello che sa aspettare e giocare con la mente della preda. Difatti la morsa viene allentata e chitarre nuovamente acustiche tornano a rammentarci il carattere infimo e ingannatore delle belva Neurosis, che si muove barcollante come un ubriaco in una fredda notte invernale. Tanti paragoni per un’unica essenza : la disperazione racchiusa in ogni esistenza. E come tutto era iniziato finisce, triste ed evocativo dove invece del piano, sono i violini a fare da padroni.
Feriti ma vivi, proseguiamo attraverso la foresta rumorista di Burning Flesh in Year of Pig : quasi due minuti di campionamenti noise che pungono come spilli pregni di veleno. Il giusto preludio per l’inferno sonoro dell anthmica Cold Ascending.
Aperta da un ritmo che verrà poi ripreso dai Sepultura di Roots, la song cresce sotto i nostri occhi (anzi, orecchie); riff disturbanti e maligni vanno ad aggiungersi lentamente, rincorrendosi e sovrapponendosi, fino a divenire un tutto uno sotto gli ordini di Scott, che si staglia imperioso sopra il marasma sonoro, con la sua voce graffiante e rabbiosa, sempre supportata dai latratti di Scott, mentre la song si inerpica su stessa, con distorsioni e campionamenti che vanno a fondersi, in un incendio sonoro che brucia ogni cosa, che diviene con il passare dei secondi la perfetta colonna sonora per un esorcismo, trainato dal sciamano Kelly e da padre Edwarson. Naturalmente i posseduti siamo noi, e altro non possiamo fare che cacciare al di fuori il male che alberga dentro di noi. Si riamane impietriti dinanzi alle mastodontiche architetture del sound dei ragazzi di Oakland, vere e proprie muraglie sonore impossibili da salire o abbattere, di fronte alle quali si può solo spalancare la bocca e allargare le braccia per la rassegnazione. E il finale deviatissimo dove tutti gli strumenti paiono convergere in un’ unica direzione, mescolati in maniera sapiente dai samples, sono il giusto epilogo per quasi otto minuti di ordinaria follia. Follia che continua indomita in Lexicon, una scheggia impazzita dal carattere noise industriale che pesca a piene mani dal sound dgli Helmet di Meantime e dagli Unsane dell’esordio omonimo. Distorsioni disturbanti accompagnate na neri sabba vocali spalancano le porte per un andamento malsano della song che oltre ai già citati latrati vocali, presenta chitarre beffarde che entrano a loro piacimento nella struttura portante della song, sconvolgendola e sconvolgendoci. Intanto la messa procede indomita ricordando nuovamente i Sepultura, quelli di Ratamahatta. Una girandola dove le chitarre diventano quadrate e morbose, rendendo il tutto una parodia malsana degli echi “tribali” degli Swans. Quando pare che il peggio sia passato, arriva la title track in tutta la sua strisciante bellezza. Un intro fatta da campionamenti e contati tocchi di batteria, dal sapore ambient\drone, apre le danze al basso di Edwardson, che come una campana a morto scandisce i rintocchi della furia cieca che arriva all’improvviso, cogliendo di sorpresa. Chitarre violentissime che si alzano sempre più in alto come se volessero trovare la superficie dopo anni di vita sotterranea. Inquietudine allucinata e allucinante, dovuta a una nuova calma apparente che riprende il motivo iniziale, e una nuova discesa negli abissi, questa volta attesa, ma non meno assassina e paurosa. I ritmi si alzano sotto i colpi della sezione ritmica Roeder\Edwarson. Le chitarre spariscono e l’unico strumento che va ad aggiungersi sono le voci possedute di Scott e Steve. Ma il sound Neurosis è costruito su muri sonori di chitarra, ed eccole che arrivano come sempre in un’altalena di riff, che vanno a rincorrere gli interventi di basso\batteria, in una folle corsa che si potrae fino alla fine della song.
Siamo quasi giunti alla fine, ma il macello ancora non finisce, ed ecco che arriva The Time of the Beasts. Il tempo delle bestie quindi. E la song che presenta tutti i tratti del nuovo sound Neurosis, pare la colonna sonora per gli istanti dopo l’apocalisse, annunciata da trombe e violini che scavano dentro. Se si chiudono gli occhi pare di vedere le immagini di città distrutte, macerie ovunque, sangue e disperazione, richieste di aiuto che non trovano risposta, pianti di bambini rimasti soli : specchio di una realtà futura che sarà se non si ci si unisce per decidere, se non si pone da parte l’egoismo e non si inizia a esistere per il prossimo.
L’album si chiude con i 26 minuti e più della bellissima Cleanse, strumentale che riprende il mood portante dell’album, ovvero un carattere tribale, dal carattere arcaico e misterioso, sorretto unicamente da basso, campionamenti e percussioni, che pare voler tracciare la via e denunciare un’evoluzione che porta alla perdizione dell’uomo, oltre che alla distruzione della realtà circostante.
Da alcuni ritenuto l’anello debole della triade che iniziò con Souls At Zero e che culminerà con Through Silver In Blood, ma io dico invece che è una perla di nera bellezza, nonostante il suo carattere ostico ed elitario.
Una foto sul futuro lontano, per migliorare quello prossimo, così il viaggio continua, in salita ma con un barlume di speranza

Neuros