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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: 26/10/08

sabato 1 novembre 2008

Dillinger Escape Plan - Miss Machine (2004)


Etichetta: Relapse Records

Anno: 2004

Tracklist:
1.Panasonic Youth
2.Sunshine the Werewolf
3.Highway Robbery
4.Van Damsel
5.Phone Home
6.We Are the Storm
7.Crutch Field Tongs
8.Setting Fire to Sleeping Giants
9.Baby's First Coffin
10.Unretrofied
11.The Perfect Design


Line up:
Benjamin Weinman - guitar
Brian Benoit - guitar
Chris Pennie - drums
Greg Puciato - vocals
Liam Wilson - bass guitar

Cinque anni. Cinque anni son passati dal primo full-length della band, un album che rispondeva al nome di Calculating Infinity, un fulmine a ciel sereno che colpì l’intero panorama estremo, portando alle masse quello che era il nascosto movimento math-core. Erano i Dillinger Escape Plan.
Cinque ragazzi giovanissimi, all’epoca poco più che vent’anni, che riuscirono a fare proprie le gesta di band seminale come Deadguy, Coalesce e Converge, portando il tutto a un livello superiore di tecnica, di impatto, di nichilismo sonoro. Un album che entrato subito a far parte nella storia del genere, divenuto subito eredità gravantesulle spalle della band, appesantitasi dall’ep più famoso della band, quell’Irony Is A Dead Scene, dove al microfono si divertiva un personaggio come Mike Patton, che sostituiva temporaneamente il defezionario vocalist originario, Dimitri Minakakis, la “gola” della band. Un periodo travagliato per la band, anche per via dell’incidente accaduto ad Adam Doll, bassista della band, paralizzato agli arti inferiori in seguito a un incidente automobilistico. Tanti turnisti in sede live, tra cui anche Sean Ingram dei Coalesce, finchè non ricevettero una demo-tape da un giovane di nome Greg Puciato. Fu un nuovo inizio.
Capace di soluzioni varie sul piano vocale, e con predisposizione all’utilizzo dell’elettronica Puciato era il vocalist che serviva alla band per rilanciarsi. Le prove erano andate bene, ora il pubblico li attendeva al varco, Miss Machine fu il loro nuovo biglietto da visita.
Panasonic Youth è una scheggia di vetro che si infila nell’occhio e inizia a infiltrarsi per tutto il corpo, devastando ogni cosa, il riffing è cambiato, i tempi son meno quadrati, a prevalere sono i solos delle chitarre supportati dal drumming Lombardiano di Chris Pennie, e soprattutto Puciato si dimostra un vocalist cazzuto come pochi altri, devastante come una belva, e capace di giostrare anche gli spazi meno tirati, che arrivano dopo un breakdown imponente, dove l’elettronica e il basso jazzato di Liam Wilson ne fanno da padroni, sfociando in solo che definire schizofrenico è un eufemismo, in un finale che spezzerebbe le gambe a un elefante. La band non sembra volere cedere di un millimetro scaraventando in faccia una mazzata come Sunshine The Werewolf, che dopo un inizio memore dei primi lavori si lancia prima in un intermezzo FNMoriano, e poi in una frenetica discesa verso l’insanità mentale, dove Greg si dimena, tra scream e urla più propriamente punk/hc, mentre Chris fa vedere come si utilizza un pedale. Poi è di nuovo quiete, dove le chitarre acustiche di Benjamin e Brian si dilettano limpide, per poi esplodere in un crescendo finale quasi disperato, meno frenetico, più UMANO. Ecco che iniziano a emergere i nuovi D.E.P.Il proiettile di Highway Robbery è di una malvagità unica, con Puciato che si diverte a fare il verso a Patton, senza rientrare nella marmaglia di quelli che invano hanno tentato l’impresa, dimostrando nel ritornello di possedere una voce unica, capace anche di fare gli occhioni dolci.
Van Damsel si muove sui lidi di Calculating Infinity, un soun più corposo e nevrotico allo stesso tempo, con riff martellanti, con un istericissimo Puciato, che da fuori di sé. La novità sono i riff simil-death del finale, che donano un carattere apocalittico alla canzone, questi sono i Dillinger, una macchina programmata per razziare ogni cosa, per fare piazza pulita, e le distorsioni che chiudono le danze ricordano a tutti che loro devono disturbare.E dalla scia di questa traccia si arriva a uno dei punti più alti dell’album Phone Home.
Campionamenti elettronici, rumori industriali di sottofondo, e un sound di chitarra ovattato che si muove sibilante nel sottofondo, mentre Greg pare cantare con lo sguardo di un matto, con gli occhi spalancati e la bava alla bocca. E improvvisamente esplode di rabbia, secca come il riffing, ma con occhio alla melodia, sempre. La canzone cresce irretibile, è come andare sulle montagne russe appositamente per vomitare, però piace, e va bene così, eliminare ogni scoria di follia, ma è impossibile e la frustrazione del finale è infatti tutto questo.
We Are The Storm è una furia cieca con un preziosissimo intermezzo acustico, pacato, un sogno in mezzo a tanta devastazione, dove Puciato si improvvisa cantante leggiadro, ma di cui non ci si può fidare, perché nel finale si riprende a martellare sulle ferite aperte e Cruch Field Tongs, elettronica e fredda, porta al secondo singolo dell’album, Setting Fire To Sleeping Giants. Inizio pacato, jazzato, con l’elettronica di sottofondo e nuovamente lo spettro di Patton, e questa volta l’esplosione è meditata, comprensibile, sfocia nel ritornello migliore dell’album, tutto da cantare, si proprio così, cantare a squarciagola. L’intermezzo di jazz puro è qualcosa di strabiliante, che si strappa le dorate vesti e cambia d’umore, divenendo un incubo lacerante, ossessivo, con un Chris sugli scudi.
Baby’s First Coffin è la nevrosi messa in musica, la prima canzone con Puciato alla voce, presente nella colonna di Underworld, dove i loops elettronici di sottofondo disturbano, ma poi arriva Greg con tutta la sua cristallina grazia, in un finale da far strappare i vestiti a qualsiasi sentimentalone.
Poi arriva lo spettro degli At The Drive-In, un passaggio talmente veloce che scivola via.
Ma per chi è in cerca di emozioni forti, la band serve il piatto di Unretrofied, la loro canzone “pop” per eccellenza. Chitarre meditate, basso trip-hopposo, escursioni di piano e un ritornello strappalacrime :

“I'll just fake it in the end just save it for a new song and leave dead in the end time is wasted inthe end wood paneled wagon carpool dragons killing me again”

Deflafgra per un momento, ma è solo disperazione, poi c’è la resa, l’abbandono. In un finale che definire toccante è poco. I Dillinger che suonano così, sfiorando i sei minuti, sì, sono cambiati.Peccato che l’album non finisca qua, ma invece il sipario è calato da The Perfect Design, grande canzone, in linea con i loro standard però, che niente aggiunge e nulla toglie a questo grandissimo album, forse, forse, il migliore della band, Patton o non Patton.
Neuros

venerdì 31 ottobre 2008

Converge: No Heores (2006)


Etichetta: Epitaph

Anno: 2006

Tracklist:
01. Heartache
02. Hellbound
03. Sacrifice
04. Vengeance
05. Weight Of The World
06. No Heroes
07. Plagues
08. Grim Heart / Black Rose
09. Orphaned
10. Lonewolves
11. Versus
12. Trophy Scars
13. Bare My Teeth
14. To The Lions

Line up:
Jacob Bannon - Vocals, Lyrics, Visuals
Kurt Ballou - Guitar, Vocals, Bass, Keyboards, Percussion, Theremin
Nate Newton - Bass, Vocals
Ben Koller - Drums, Percussion
Jonah Jenkins - Vocals, guest vocals on Grim Heart/Black Rose


Anno 2006. I Converge sono tornati. E già questo è un evento. Sì perché nonostante il titolo dell’album, il gruppo di Boston può ambire, se non al titolo di eroe, perlomeno a quello di paladino di un certo tipo di musica pe(n)sante, insieme a pochi altri eletti del calibro di Neurosis, Botch (rip) e DEP.
No Heroes ha il difficile compito di continuare a sorprendere la platea hardcore internazionale dopo la pubblicazione di perle mutanti come Petitioning The Empty Sky, Jane Doe e You Fail Me. Impresa assai ardua. I Converge in questi anni sembrano aver spaziato un po’ ovunque lungo la direttiva post/metal-hardcore e sbalordire di nuovo tutti con qualcosa di completamente innovativo è probabilmente troppo, anche per loro. Ci si affida allora alla classe dei singoli componenti, quella davvero infinita.
Sul display iniziano a scorrere i secondi e Jacob Bannon e soci non si fanno attendere, il poker d’apertura è da infarto. Heartache-Hellbound-Sacrifice-Vengeance. Prendete la violenza terremotante di Jane Doe (chi ha detto Concubine/Fault And Fracture?), la crudezza e pulizia sonora di You Fail Me e shakeratela con un po’ di vetriolo e acido muriatico. Il tutto in poco più di 5, ripeto e scandisco, c-i-n-q-u-e minuti.
Weight Of The World ci permette di rifiatare in attesa di uno degli highlights del disco: No Heroes.

In vein and valor
Be what they fear
Their days are over
Our nights are here
With hate and heartache
I'll strike you down
With rage and rapture
I crush your crown
No more gods
No more graves
No more love
No more hate
No more heroes
No more no more
In my world of enemies
I walk alone

Uno degli apici compositivi di questo fenomenale gruppo. Un trattato su come si debba scrivere una canzone dotata di cazzi e controcazzi. Il testo, come la musica, è diretto al cuore dell’ascoltatore, senza lasciare spazio a inutili fronzoli. E il resto della concorrenza post e dintorni è, ancora una volta, messo dietro in scioltezza.
Plagues ci striscia malefica sotto la pelle con le sue chitarre prese di peso dal calderone stoner/metal. Arriviamo a Grim Heart/Black Rose, il cuore dell’album. Ad accoglierci a braccia aperte troviamo Jonah Jenkins, cantante dei Milligram. L’atmosfera si fa, se possibile, ancora più pesante. E’ un tipo di violenza diametralmente opposto a quella proposta in apertura. E’ una violenza frastornante, psicologica e psicopatica. Le chitarre sono acide e i colpi di batteria pesano come macigni sulle spalle di un mondo che crolla a pezzi giorno dopo giorno. Sul finire del pezzo ritroviamo Jacob Bannon a prenderci per mano e affossarci nella sua personalissima spirale discendente. Un’esperienza psicofisica più che un semplice ascolto.
Neanche il tempo di riprenderci e Orphaned si abbatte fra capo e collo con la violenza di vecchi brani metalcore come Albatross o Buried But Breathing,i Converge non si sono scordati il loro passato.Lonewolves e Trophy Scars fanno abbassare la lancetta sul contachilometri ma non l’impatto sonoro, sempre devastante. Versus e Bare My Teeth pigiano invece decisamente il piede sull’acceleratore facendoci schiantare con i loro testi nelle coscienze marce che dominano l’odierna società, indipendentemente che si tratti di rapporti fra singoli o di masse.
To The Lions chiude alla grande un lavoro che probabilmente rimane un gradino sotto ai capolavori storici (almeno due) del gruppo, ma che può benissimo fungere da summa di quanto proposto fin qua, dato che i richiami al passato, come si è visto, non mancano. Per finire, due menzioni d’onore. Una sicuramente a Jacob Bannon. Screamer di livello 5 stelle (alla faccia di chi si lamenta perché fa solo quello!!) oltre che scrittore di testi incisivi come pochi. Proprio le liriche stavolta sembrano aver preso un maggiore peso “sociale” rispetto al passato, spostando leggermente l’obiettivo dalla classica analisi di rapporti interpersonali e stati d’animo singoli. L’altra va a Kurt Ballou, eccelso sia nelle vesti di chitarrista sia, come al solito, in quelle di produttore. Proprio la produzione infatti gioca un ruolo fondamentale nell’economia del disco, permettendo al gruppo di esprimere nella maniera più pulita e cristallina possibile tutta la sua classe.

Alessandro Sacchi =KG=

giovedì 30 ottobre 2008

Converge: Petitioning The Empty Sky (1998)



Etichetta:
Equal Vision

Anno:
1998

Tracklist:
1."The Saddest Day" – 7:05
2."Forsaken" – 2:20
3."Albatross" – 1:49
4."Dead" – 3:05
5."Shingles" – 4:13
6."Buried But Breathing" – 1:11
7."Farewell Note To This City" – 5:20
8."Color Me Blood Red" – 3:57

Line up:
Jacob Bannon - Vocals, Lyrics, Visuals
Kurt Ballou - Guitar, Vocals, Bass, Keyboards, Percussion, Theremin
Aaron Dalbec - Guitar
Stephen Brodsky - Bass
Damon Bellorado - Drums

Non è una novità il mio amore per la band statunitense di Kurt Ballou, Jacob Bannon, Nate Newton e Ben Koller…Un combo che è stato fondamentale per la musica moderna, una band che ha osato, è andata oltre e insieme a poche altre ha dato vita a un movimento che, ai giorni d’oggi, trabocca di idee e fantasia, impatto e maestosità, gioia e dolore, vita e morte, un movimento che vede ancora loro a tirare le fila nel 2008, ovvero da 18 anni ormai (1990 risale il primo nucleo della band) , un movimento che senza il loro contributo ora sarebbe inesistente, ovvero l’hardcore evoluto (o meglio involuto), e altri generi ora sarebbero ancora carenti di spunti, divenuti ora fondamentali per la loro crescita ed espansione…Correva l’anno 2001 quando sulla scena musicale, comparve quel obelisco sonoro dal nome Jane Doe.Un album che è leggenda, imprescindibile, che portò la band nel gotha della scena estrema.Tanto si è detto su questo album, mai troppo sia chiaro, ma le cose semplici non fanno per me, e soprattutto è bene ricordare che il percorso della band era già chiaro nel 1997, quando la band diede alla luce una colata di magma a titolo di Petitioning The Empty Sky.Il dolore posto in musica, il caos e la creazione, l’intimo che alberga all’interno del nostro animo, mettere a nudo l’ascoltatore, renderlo inerme, senza speranza, guidarlo ad affrontare il proprio lato oscuro, e condurlo alla quadratura del proprio ego, grazie a lampi di razionalità che colpiscono al posto e al momento giusto per donarci la pace dei sensi, luoghi della mente dove tutto è pacato, lieve, etereo.Cambi di tempo, vocals che squarciano l’aria satura, malsana, per convertirsi in cori infantili, arabeschi chitarristici talmente spontanei che paiono scritti in pochi minuti, in un momento di estasi creativa. La melodia arriva come una lama, altre volte si perde nel caos, e riconoscerla nel riffing diventa il vero piacere. Solos nervosi, scale insane, riff spesso di matrice Bay Area, stuprati, privati dell’anima e plasmati in nuova forma, migliore.L’album si apre con The Suddest Day, veloce nervosa, una belva in gabbia, armonie malsane ed ecco il riff che entra più lento e cadenzato, come dei fendenti che arrivano al petto, e vanno a creare un vortice dal quale non si può venire fuori, mentre il basso ben scandito pare contare i secondi che mancano al nostro ultimo respiro, ma la tortura è un piatto che deve essere servito lentamente, ed ecco i rimi che crescono, citando gli Slayer con un solo di King-iana fattura, la song continua come un’altalena, martellante, perseverando sulla parte lesa, e non si può altro che supplicare il perdono, facendo l’eco delle vocals pulite di Jacob che paiono ad un tratto una litanà malefica, ma ritmi sincopati ci riportano a terra ed ecco che il giro di giostra ricomincia nuovamente, vorremmo espellere ciò che abbiamo dentro, ma non si riesce poiché ipnotizzati. Nient altro importa, solo il singolo, il proprio battito del cuore, solo:

“And we won't be breathing in that same sun again”"How we get older, how we forget about each other"

Forsaken. Il titolo dice tutto.L’abbandono, al proprio destino, il tempo che scorre scandito da riff di chitarra pieni e quadrati. Taglienti come lame di rasoio, e la batteria che alza il ritmo e il “Go” di Jacob toglie qualsiasi freno, fisico e mentale, ci lascia nell’oblio, a perdersi nel Lete, come in uno squarcio nel tempo, dove ci paiono passati giorni, ma tutto accade in solo 2.20 min. dove tutto è fermo:

“I am as cold as the monuments you left for me, and another one passes in the evening”

Il dolore aumenta, diventa insopportabile, ma conduce al piacere, morboso piacere al quale non vogliamo rinunciare.E arriva Albatross a portarci via, 1.49 min. dove uno schiaffo punk/hc violento e nero come la pece ci immobilizza e inermi assistiamo all’occhio del ciclone, una falsa quiete dove chitarre sussurrate e acustiche ci cullano:

“We breathe out of key and wonder. If you can hear the awkwardness in these tremors”

con occhio assassino però, perché arriva Dead che dopo pochi secondi getta la maschera e si mostra in tutta la sua pena e malvagità dove le vocals di Jacob paiono le urla di una anima lacerata, e i riff di Kurt allargano ogni nostra ferita, soprattutto quelle che ci portiamo nel cuore:

“You never loved me. Dead.”

Ormai piangiamo e lacrime paiono i solos che aprono Shingles, non possiamo smettere di flagellarci il cuore perchè è un male nel quale ci ritroviamo, un maelstrom nero sostenuto dal basso di Nate, che porta alla confusione che riside nel profondo, ben esplicata dal dualismo creato da chitarre acustiche e scream di Jacob, la luce e l’ombra che risiedono in ognuno di noi:

“And you can make reasons for everything But as long as I dream some things will always be. Gun in my mouth, I pray for the sunshine”

Siamo rassegnati e i ritmi forsennati di Buried and Breathing paiono proprio volerci sotterrare, il corpo sotto terra, l’animo sotto l’angoscia di un domani inutile, senza che che ne si accorga poiché tutto avviene in 1.11 min. , veloce come un treno, che rappresenta il nostro futuro:

“For the dyin beautiful, and the infinite end. I never got to say, I never had the chance to listen. I missed this train. Buried but breathing, this evening sleeps. Buried but breathing, these devils weep”

Lo sconforto ci avvolge, piove e torniamo al nostro nido, la buia città ci accoglie, spenta e putrida, ma per una qualche oscura ragione, accogliente, già, erchè ci piace crogiolarci nel nostro sangue, nel nostro sudore, è vero, è uno schifo, ma è familiare , e questo ci conforta e ricominciamo a piangere, ma di gioia e urliamo al mondo la nostra felicità, a pieni polmoni, e in sottofondo, una melodia mai così angelica e liberatoria, quasi bambina:

“Disenchanting the romantic. This is the real, this is the shame. These limbs search feverishly for the gift of gravity. Coarse twine tears clean. And i have thought about this very instance for all time. Decades longer that you or I. Crimson comforting, scorching this flesh, giving its caring for me. And i have thought about these moments for all time. Dangling from a silver lining. These lungs welcome the crimson tides of misfortune. Hell to pay, this is my farewell to this city.”

Ora siamo in piedi, pronti a lottare, il male si ripresenta, strisciante come una serpe, un riff lento e sulfureo, ma ormai siamo padroni del nostro Io e possiamo reagire, furenti come non mai, ci sbucciamo le nocche e il sangue scorre (Color Me Blood Red),ormai sappiamo convivere con il dolore, e corriamo avanti verso l’ignoto, sostenuti da chitarre aspre ma evocative, non più nere, ma grige, poiché la luce traspare, nel futuro è presente:

“Please love, just come home again. Just let this one pass, there will be another. And this after before the pain. Every deliberate hangs by my left hand. Those eyelids and this warm water floods my nostrils. Neck deep, i cry high. Together we sleep, slouched discolored porcelain. Dreaming of those elucid moments when smiles hang high. Limbs outsretchded, a bad moon rising. Faucet turning. Desolation churning. Drowning in what we've become. Neck deep, i cry high. I have spilled and you cannot fathom the notion, that it was the end of something. This is the end.”

Neuros

mercoledì 29 ottobre 2008

Cult Of Luna: Eternal Kingdom (2008)


Etichetta:
Earache

Anno:
2008

Tracklist:
1. "Owlwood" - 7:39
2. "Eternal Kingdom" - 6:41
3. "Ghost Trail" - 11:50
4. "The Lure (Interlude)" - 2:33
5. "Mire Deep" - 5:10
6. "The Great Migration" - 6:32
7. "Österbotten" - 2:19
8. "Curse" - 6:30
9. "Ugìn" - 2:44
10. "Following Betulas" - 8:56

Line up:
Klas Rydberg - vocals
Johannes Persson - guitars, vocals
Erik Olòfsson - guitars
Fredrik Kihlberg - guitar, vocals
Andreas Johansson - bass guitar
Anders Teglund - keyboards, samples
Thomas Hedlund - drums, percussion
Magnus Líndberg - drums, sound engineering

Si potrebbe dire che sia il nono membro dei Cult Of Luna. Si potrebbe dire che sia stato il loro nume ispiratore. Si potrebbe dire che è stato il destino. Si potrebbe dire che sia solo una fantasia.
Si potrebbe quasi dire qualsiasi cosa.
E’innegabile però che il quarto parto della band di Umea sia legato con un filo indissolubile all’oscura figura di Holger Nilsson. Chi fu questo personaggio? Sono i COL stessi a tramandarcelo tramite le paroe di Johanees Persson, il quale narra dell’incontro con Nillson avvenuto in un manicomio istituzionale sperduto tra i boschi svedesi. Nessuna stretta di mano però, nessuna parola, Holger viveva nei suoi stessi manoscritti : “Racconti da Eternal Kingdom”; accusato dell’omicidio della moglie e condannato all’ergastolo, passò i suoi anni a scrivere e disegnare di quel mondo sconosciuto ai più, quel mondo dove convivono salute e malattia, sanità mentale e pazzia, delineati da confini spesso soggettivi. E’possibile che Holger Nilsson sia stato innocente, non lo sapremo mai, ma possiamo cercare di comprendere il genio instabile che sta dietro quest’album, ripercorrendo il suo cammino attraverso ogni canzone.Dopo un disco spartiacque come Somewhere Along The Highway, capace due anni fa di aprire nuove strade a un certo tipo di post-core, i Cult Of Luna erano chiamati alla definitiva presa di coscienza dei propri mezzi che portasse alla consacrazione, raccogliendo i frutti di quanto seminato nei tempi precedenti, chiudendo quel cerchio iniziato con The Beyond.
Ed è proprio da quel primo album che la band riprende forza, passo quasi scontato alla luce (termine quanto mai inappropriato) del diario di Nilsson, filtrando ogni passo tramite i repentini cambi di umore di Salvation e la solitudine di SatHw.
Owlwood da il suo amaro benvenuto a chi sceglie di entrare in quest’album, a mani aperte, grosse mani che schiaffeggiano. I riff si sono fatti decisamente più pesanti rispetto al passato, e la frustrazione vocale di Klas Rydberg è prova tangibile di questa rinata pesantezza. E’lui Holger Nilsson, è lui il narratore che fa strada nei dintorni del manicomio, che presenta le stanze, che incontra i suoi tetri inquilini. Un istituto immerso nel verde, ma oltre quel verde vi è il nulla.
Il suono è saturo come non mai, le chitarre però non erigono un vero e proprio muro sonoro, ma si rincorrono in un riffing ben distinguibile, che sposta il baricentro della band dagli originari gradini sludge verso un dannato piano doom. Gli arpeggi di Erik e Fredrik fanno il resto per portare il silenzio sul componimento, mentre in sottofondo i samples di Anders sono sibillini, instabili.
E dopo tutto il clangore iniziale la canzone si chiude nella più inattesa dolcezza.
Dura poco.
La titletrack è un guanto di sfida verso la legge che si è fatta mattone, verso la mano spesso corrotta della giustizia che non rispetta essere alcuno, confinando i propri figli in luoghi dove nemmeno le bestie dovrebbero vivere. Una furia ceca che si abbatte sull’ascoltatore e salta da un riff all’altro, mentre il basso di Andreas di nascosto piange. Con una mano al petto Klas grida tutto il suo dolore, sentimento di chi vede il proprio passato lontano, che non tornerà più. Le claustrofobiche atmosfere sono intervallate da piccolo spiragli di luce, dove filtra una tenue melodia, alter-ego di ciò che accade in superficie. Il finale rallenta il passo e si fa distorto, battendo sui freddi muri di quella prigione, per mettere in chiaro ancora una volta quanto siano fredde quelle mura.
E’un cammino fisico quello che si compie, ma più passa il tempo più ci si dirige verso l’altra (eterna) faccia della medaglia, l’edificio che sta dentro ognuno di noi, quell’impenetrabile palazzo che è la mente umana.
E così Ghost Trail arriva in punta di piedi, introdotta da una marcetta che ricorda il flusso di pensieri di Joyceiana memoria. Le atmosfere si dilatano, si fanno rarefatte, crescono poco a poco, si separano in frammenti, si spargono al cielo notturno e volano in alto, dove arriva il solo di Johannes. Si un assolo liberatorio, inusuale per i Cult Of Luna, inusuale per il genere, ma allo stesso tempo di una bellezza struggente, accompagnato dal piano , che ferma il tempo e pare quasi dare speranza in quel luogo di desolazione, dove la civetta continua a guardare, a controllare, a punire, come l’occhio di The Beyond, ma spesso e volentieri decide di girarsi dall’altra parte e tradisce. Vede tutto e distorce tutto. Un crescendo emotivo inaudito.
Che si spegne.
La testa inizia a remuginare, inizia a dondolare avanti e indietro in maniera costante, sudore che imperla la fronte, pulsazione che aumentano, con il basso che cresce e i rintocchi elettronici che scandiscono il tempo. Mani che tremano. Rabbia che esplode.
E’una chiusura tra le più pesanti mai udite in casa COL, opprimente, nera come la pece, sguaiata, memore delle efferatezze compiute da moloch come gli Ufomammut.
The Lure è un interludio strumentale di pregiata fattura, una tentazione appunto, dove dolci chitarre si incontrano con i suoni di un carillon e con trombe lontane (opera di Erik Palmsberg). Una parentesi barocca dopo tanta violenza. Si è sempre nella mente di un condannato all’ergastolo.
La discesa riprende, continua imperterrita con Mire Deep. Da una parte la tranquillità della parte strumentale, dall’altra l’irrequietudine di Klas. Parole che salgono oltre le fronde degli alberi e si elevano al cielo invernale, si alzano verso la natura più selvaggia. Che risponde.
Il drumming di Thomas si fa serrato, potente, colpisce dritto allo stomaco e non lascia prigionieri, bastano già quelli dell’istituto. La Locust Star di Eternal Kingdom è appena esplosa.
The Great Migration è una lenta e sofferta marcia di riff sfilacciati e gonfi di odio, sbilenchi, come solo i Breach sapevano fare, ma i COL ci aggiungono tutto il loro alone dannato, come una supllica rivolta alla verità, che ancora una volta volta lo sguardo, e lontano da lei tutti trovano unicamente il proprio inferno.Da questa prima metà del tragitto emerge uno spiccato ritorno alle atmosfere più nefaste di The Beyond, ben rappresentato anche dalla tematiche della civetta, che come il Panopticon sta sopra ogni cosa. Le progressioni di Salvation non mancano di certo, le parti più pacate di SatHw paiono scomparse, e invece no, ascoltando attentamente se ne sentono perennamente gli echi in sottofondo e soprattutto nella scelta dei riff, ben scanditi, come dei rintocchi a morto. Una produzione notevole, opera di Magnus come sempre, che conferisce un suono tondo e corposo, che pone la sezione ritmica in rilievo come da tradizione svedese. Pare un sunto di quanto fatto in tutta la carriera, vero, lo è, ma dall’ascolto attento possono emergere questi e tanti altri nuovi particolari. Si è voluto fare il punto della situazione, e considerando la giovane età del combo, ben venga, contando che ci sono almeno altri tre o quattro album all’orizzonte. Sempre con la consapevolezza che non abbiano mai sbagliato, e con quest’album vogliono ribadirlo.
Osterbotten riprende le danze e ripercorre le sperimentazioni elettroniche proposte nell’album precedente, come un drum n’bass drogato e imbottito di tranquillanti, rivestito di un alone cosmico. Lo stesso alone maledetto che imperversa per tutta la regione.
Curse è un ricordo, una memoria che preferibilmente dovrebbe rimanere nascosta ai margini della mente, e invece riaffioria nelle glaciali notti invernale, quando anche il ghiaccio che si spacca nel Baltico pare produrre fragori immensi. Lenta, lentissima, malinconica, Curse cammina sul baratro della pazzia come nessun’altra delle canzoni di Eternal Kingdom, con un blocco centrale nervoso e multiforme, che si fa distorto e poi saltellante grazie a Thomas, con le mani di Holger che affondano nel viso. Mani colpevoli. Terra maledetta.
Ugìn è un blues svedese semplice e accattivante, forse uno scherzo trovato tra le pagine di Nilsson, forse un piccolo tributo agli ultimi Earth, chissà.
Following Betulas. La fine del racconto. La fine del viaggio.
Si intravedono tra le chitarre i suoni che hanno reso grande un album come Oceanic, ma i Cult Of Luna ci mettono una rabbia inaudita, una sezione ritmica viva come non mai, mentre le chitarre disegnano arabeschi psichedelici insieme ai loops elettronici di Anders.
Paiono convinvere in nove minuti le anime di tutti i residenti del manicomio, ci sono dita che battono sui tavoli, ci sono pianti silenziosi, urla belluine, ci sono l’autoritarismo delle guardie che piacchiano, c’è la voglia di fuga, sia solo con la mente.
E’un Nilsson sul promontorio che porta alla pazzia, che con un ultimo barlume di lucidità chiede perdono, condanna il sistema, condanna la sua terra, guarda negli occhi la civetta, non c’è alcun bisogno di parole. Momento solenne.Il cuore batte sempre più forte, al ritmo di Thomas e Andreas, lo sguardo rivolto a luna sempre più bassa, la consapevolezza che la vita sia finita da molto tempo ormai, solo il fruscio delle betulle lontane dona un ultimo alito di conforto, e, solennemente, piangono anche loro. Suono di trombe, rullo di tamburi, mani al petto, entra il freddo. Il viaggio è finito.

Umea vede Boston.

Neuros

martedì 28 ottobre 2008

Cult Of Luna: Somewhere Along The Highway (2006)



Etichetta: Earache

Anno: 2006

Tracklist:
1. Marching To The Heartbeats (3.17)
2. Finland (10.50)
3. Back To Chapel Town (7.13)
4. And With Her Came The Birds (6.03)
5. Thirty Four (10.03)
6. Dim (11.50)
7. Dark City, Dead Man (15.47)

Line up:
Klas Rydberg – voce
Johannes Persson – chitarra, voce
Fredrik Kihlberg – chitarra, voce
Erik Olòfsson – chitarra
Andreas Johansson – basso
Thomas Hedlund – batteria, percussioni
Magnus Líndberg – batteria
Anders Teglund – tastiere

Partiti sullo sterrato dell’esordio omonimo, proseguendo sull’asfalto secondario di The Beyond, incrociando strade cittadine con Salvation, ecco che i Cult Of Luna si allontanano nuovamente, solitari e imperterriti, verso la Highway.Eredità pesante quella dell’istrionico combo svedese. Gravava sulle proprie spalle la mole importante di un album di caratura cristallina e superiore come Salvation, la consapevolezza di aver spalancato le porte del gotha di un genere elitario e oggi inflazionato come il post-core, l’ombra dell’eredità di una band come gli Isis, senza dimenticare la fondamentale influenza della madre di tutto, ovvero i Neurosis, senza diventarne infimi emulatori (un suono infatti non ispirato direttamente dalla band di "Through Silver In Blood", ma dalla quale ha sicuramente tratto giovamento dal contesto, aperto alla contaminazione evolutiva, che ne è scaturito).
Dimostrare che ormai i (defunti) Breach da maestri avevano abdicato a loro favore, e rispondendo all’appello di chi vuole le band svedesi (Umea, piccola cittadina, ha dato i natali anche a Meshuggah e Refused, facendomi interrogare su quale polvere sottile vibri nell’aria del posto) tra le più innovative della scena rock odierna.
Curando ogni minimo particolare, isolandosi da tutto e da tutti, come distrata la produzione ad opera dell’eclettico batterista Magnus Lìndberg, motore della band in ogni direzione, dalla supervisione all’artwork (stupendo, semplice, etereo, magniloquente, cupo, infetto) alla stesura delle lyrics insieme a Perrson, prima ribelli, antagoniste, capaci di accanirsi contro la globalizzazione, i diritti dell’uomo e degli animali, violente, ora invece, sempre più improntate a una soffusa introspezione (quì siamo davvero vicini ai Neurosis) dell’individuo, costretto a camminare solo, senza nessuno sguardo da incrociare, senza alcuna guancia da accarezzare, senza una meta alla quale aspirare.
Inizia la passeggiata sopra la Highway, ma non da intendere come facevano le band rock degli anni passati, ovvero un luogo di baldoria, di velocità, di spensieratezza, di libidine (Highway To Hell ad esempio), ma un luogo al margine, dove abbandonarsi ai propri pensieri, lasciar scorrere il loro flusso in maniera inesorabile, perdersi nelle luci al neon e guardare di sotto una vita frenetica che più non gli appartiene, chiudendosi nelle spalle, e facendosi guidare dal destino, che accarezza spesso, ma non sempre, le nostre vite.
Ecco che una fioca luce lontana, donata dalla speranza, arriva ad indicarci la via, sfocata, ma desiderata e seguita quindi, un lontano battito di cuore, della persona amata forse, ecco Marching to The Heartbeats:

“The sun, the light in your eyes, trapped me in a cage.When you saw me you saw yourself.We were the ones that marched and fell.”

Un cantado caldo e dolce, che si adagia maestoso su distorsioni di chitarra tirate fino allo spasmo, mentre il basso di Andreas predomina su ogni cosa, conducendo una danza fioca, ipnotica, scandita da lontani tamburi, quasi impercettibili, mentre flebili note di piano si affacciano timide, quasi a voler affermare in maniera gentile la loro presenza. Un intro di lisergica bellezza che ricorda da vicino gli ultimi esperimenti degli Earth, in particolare quelli di HEX: Or Printing In The Infernal Method. Livelli altissimi quindi.
La difficoltà della vita, le sue mille asperità, che stanno ogni momento in agguato, dietro angoli che spesso non si riesce a vedere, e violente ci aggrediscono, come Finland. Camminare nei ricordi, ecco cosa, camminare tra le immagini lontane, immagini che feriscono, immagini di egoismo e disperazione, come la la propria consacrazione a discapito dell’innocenza dei bambini, ricordi di un passato che torna a galla e infila le proprie dita nel cuore, schiacciato dal peso della scalata, scalata verso la propria felicità:

“These things moved me when I turned my back. Now I return with open hands.I found light that lead me to the shrine where children sang and pilgrims mourned.I was lost but not alone.From a distance they come alive. Sleepwalking across the plains.No answers were found here. Seeking shelter in her embrace.Down on sore knees. Erase and begin. Under my eyelids, come forth light.”

Ecco che si aprono scenari inquietanti, dopo la deflagrazione iniziale arrivano arpeggi acustici di derivazione post-rock a prendere il sopravvento su ogni cosa, in una jam session tra la raffinatezza degli Explosions In The Sky e la rabbia repressa dei Mogwai di Come On Die Young. Calma apparente che si fa in mille pezzi con i riff secchissimi del trio Johannes Persson-Fredrik Kihlberg Erik Olòfsson che feriscono la song più volte, come solo la coppia neurosisian Kelly-Von Till ci ha abituato. Giri semplici che girano intorno a un drumming ossessivo e marcatissimo, opera della coppia Lìindebrg-Hedlund, capace di martoriare lentamente il proprio drum-set, mentre Rydberg da sfogo alla sua rabbia con un growl possente e disperato, dando voce alle sue domande senza risposta, alla sua fragilità che viene manifestata nel finale, scorribanda strumentale dove le chitarre squillano aquiline, grazie ad un effetto pseudo-mandolino caro ai This Will Destroy You.
Ed è alla stessa maniera che si apre Back To Chapel Town:

“Floating over empty streets. Away from pain, away from everything.Pray that we will survive the night. Buildings falling, the soul vaporised.Watching you sleep, but I know that your heart has grown cold.Let me dream if only for tonight, that we leave together in the first morning light.Alone and forgotten. I bow my head in shame.Before you all answers reveal. So I sink my sorrows in the sea.”

Ecco che si attraversa la propria infanzia, grigia, rinchiusa dalle mura inespressive della città, sopra le quli sfogare la proria rabbia, mentre il sange esce dalle nocche, e una sensazione di pace instabile si insinua nel profondo dell’animo, andando a intaccare come petrolio su una spiaggia, i sogni rimasti, i sogni di redenzione e luce, ciechi dinanzi alle risposte.Echi pink-floydiani, che provengono direttamente da capolavori immortali quali Dark Side Of The Moon, Meddle e A Saucerful of Secrets, e proprio qua risiede la grandezza del combo svedese : riuscire a inglobare miriadi di caratteristiche, anche abusate nel panorama musical, ma donando loro nuova linfa, carattere proprio, proprio per questo, musicalmente parlando, li ho sempre definiti i Pink Floyd del 2000, paragone azzardato, vero, ma personale e sentito. Riff scarni e dilatati, memori degli esordi ancora influenzati dallo sludge, come avvenne per gli Isis, ma, come la band di Aaron Turner, evoluzione è la parola d’ordine, ed ecco che i lidi lambiti sono quelli del monumentale Panopticon, un cammino distorto, uguale nell’apertura e nella chiusra. Un brano violento e cupo.Ed ecco che la dannazione iniziale torna a insidiare la mente, con With Her Came The Birds, parentesi dannate e delicata, dove si corre verso ambienti lontani, quasi dimenticati, una dannazione che desidera morte, una sofferenza che deve finire, in pasto ai corvi, ed ecco che lontana una figura si staglia, lei, che arriva nel momento della fine, per aiutare o finire? Questo non è lecito saperlo, mentre avanzano con lei, gli uccelli:

“Night falls, silence takes a grip. Guilt I retrieved, a burning will to die.I need this to be over before I am bleeding dry.Somewhere along the highway these tracks must end.I pass a crowd on my way to the house on the hill.Dead man with pitchfork arms tells me all that he knows.Leave me here for the crows.In the Fall she came back, and with her the birds.”

Un anfratto acustico che cita I progetti solisti di Scott Kelly e Steve Von Till, una piccolo spiaggia tranquilla fatta di arpeggio appena distorti e fumosi, un pò Red Sparowes un pò blues, mentre in lotananza addirittura echi country di un banjo fan capolino, a voler ribadire le capacità di sperimentazione della band, che nel suo lento ma inesorabile procedere, scalfisce l’apparato emozionale dell’ascoltatore, e, come un acqua cheta fa crollare i ponti, loro radono al suolo le difese emotive, in un turbinio simbiotico tra noi e la band.Una simbiosi che acquista maggiore forma nella semi-strumentale Thirtyfour.I suoi occhi, il suo sguardo come punizione, un sogno debole che sparisce all’alba, come tutti i sogni. Si aspetta la fine, in silenzio. La sua figura quasi impercettibile, quasi inesistente.Momenti di pace, dove il vento soffia lontano la sabbia, riportandola magari nei luoghi dalla quale essa proviene. Dietro le dune la falsa speranza aspetta chi ha perso quello che amava:

“In her eyes he stares at his reflection. A faint dream, that disappeared at dawn.Standing at the shore patiently waiting. But the waves do not return when she is gone.So he followed her footsteps, to the highway that sealed his fate.The wind blew all sand away. Faceless people that walked astray.Behind the dunes false hope awaits the ones that lost what was loved.”

Un’altalena emotive incredibile dove dissonanti esplosioni chitarristiche si alternano a momenti di dolce quiete con le sue chitarre scandite come solenni rintocchi di campane, e il suo canto aggressivo e tagliente su crescendo sonori, voli pindarici di pura classe musicale che, come s'intuisce, al culmine dell'aggressività, si abbelliscono di un bellissimo e smorzante giro di tastiere, che ricama scenari accoglienti, figli di un tempo che non c’è più.
Che la fine sia imminente?Lei guarda dall’alto, impassibile, guarda e silente gode della nostra situazione, mentre nuvole scuro muovono a coprire il cielo, quasi a voler separaci dall’infinito del cosmo e rendere quel momento intimo, una balletto solitario da danzare all’infinito, mentre gli uccelli volano sopra la testa, e confondo i sensi, mentre si pensa alla propria speranza perduta, e come giocavamo con la vita nostra e quella degli altri. Dove si è persa la memoria di tutto?Ma forse è solo un cammino impervio per l’espiazione dei peccati, per trovare un luogo dove i nostri cuori battano come uno. Questa è Dim:

"From the skyline dark clouds move in. They shroud me with her cold cover.Eyes like daggers puncture the skin. Isolated in a room with no others.Where do I turn when all hope is lost? Where do I find forgiveness?My search for salvation has begun. To find a place where our hearts beat as one."

Si ritorna a battere territori più apertamente contaminati, con la partitura in evoluzione per tutta la durata, sibillina, sempre al limite, una varietà strutturale e sonora, qualche lampo di elettronica affiancato alla batteria possente, le chitarre dilatate che a tratti sembrano slide, ripetute fino allo spasmo, l'esplosione vocale di chiusura che sembra l’urlo finale di un dannato.
E si arriva all’epilogo dunque, inaspettato, o forse no. Dark City, Dead Man. Una città oscura, un uomo morto. Forse la città oscura che risiede all’interno di noi.Perché non arriva epilogo, una ricerca eterna, dannata, come punizione o dedizione. Voluta o forse odiata. Perché lascia nel limbo, como gli ignavi, come coloro incerti del loro futuro:

"When the streetlights fade. Warm rain like judgement descends.Their voice numbs me. Speaking words in a dead tongue.I have walked a road that lead me back to you.From a window our glances met. My true colours I cannot hide."

Tutti gli elementi del disco vanno a confluire in un perfetto giro reiterato (con qualche piccolo intervallo/variazione), per chitarre post-core emotive e violente , batteria incisiva e urlo disperato (i primi 6 minuti) che scivola in costante crescendo strumentale sino all'esaurimento delle forze (ultimi 10 minuti), con lontani echi trip-hop e campionati, elettronica e sangue amaro, arpeggi distorti e ritorni acustici, rabbia e felicità, vita e morte,mentre la pioggia scende in maniera silenziosa, a bagnare il viso, e coprire le lacrime.

Neuros

domenica 26 ottobre 2008

Down - III: Over The Under (2007)



Etichetta: Warner

Anno: 2007

Tracklist: 1.3 Suns and 1 Star (Anselmo/Windstein) - 5:41
2.The Path (Anselmo/Brown) - 4:09
3.N.O.D (Keenan/Windstein/Anselmo) -
4:00 4.I Scream (Anselmo/Keenan) - 3:48
5.On March the Saints (Anselmo/Keenan/Windstein) - 4:10
6.Never Try (Keenan/Brown/Anselmo) - 4:55
7.Mourn (Keenan/Anselmo) - 4:44
8.Beneath the Tides (Anselmo/Keenan) - 5:32
9.His Majesty the Desert (Keenan/Anselmo) - 2:25
10.Pillamyd (Keenan/Anselmo) -5:15
11.In the Thrall of it All (Anselmo) - 6:20
12.Nothing in Return (Walk Away) (Keenan/Anselmo) - 8:55
13.Invest in Fear*

Line up: Phil “Nodferatu” Anselmo – voce
Pepper J. Keenan – chitarra
Kirk Windstein – chitarra
Rex Brown – basso
Jim Bower – batteria

Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Gabriele D'Annunzio e i Down. Il punto di contatto tra questi tre poeti e la band della Louisiana? Potremmo dire che il simbolismo abbia “metaforicamente” ispirato la band nella composizione del loro terzo lavoro in studio, perchè nel simbolismo la natura invia segnali interpretabili dal solo poeta, il quale era capace di decifrare i messaggi della natura e decifrarli per il “cieco” spettatore. Potrebbe, ma alla fine si tratterebbe esclusivamente di un'ipotesi malsana, ma non così peregrina ed assurda: la natura ha realmente ispirato i Down, si è ammantata da musa ed ha indicato loro parte della strada da seguire in questo Over the Under. Il riferimento è diretto ai terribili eventi del 2005, quando l'uragano Katrina colpì in maniera catastrofica la costa pacifica degli Stati Uniti, in particolar modo New Orleans, la città in cui vivono i ragazzi. Nel momento in cui la tua vita viene sconvolta da un avvenimento del genere, nulla è come prima in ogni caso. La più grande disfatta economica, una delle più gravi per il numero di morti, interi quartieri sommersi dall'acqua e dal fango, senza la possibilità di trovare un colpevole, un responsabile, un capro espiatorio. Puoi solo piangere e risorgere, combattere e faticare per cercare di salvare il salvabile, sperando in tempi di recupero ridotti. Ma puoi ricostruire e rimettere in sesto la tua casa, la tua attività commerciale, uscire di casa a distanza di mesi dall'uragano e rientrare nello stesso bar in cui eri seduto quando è scoppiato fuori quell'inferno liquido. Potrai ricominciare da capo, ma sarai inesorabilmente segnato nella tua anima, sentendo ancora bruciare i tuoi occhi per le lacrime e la rabbai, le vene pulsare impazzite come se ti fossi fatto uno speedball di nitroglicerina e adrenalina misto a paura ed LSD. E' il peso del mondo che ti schiaccia, quando la tua bella casa nel quartiere residenziale assomiglia alle case di fango alla periferia di San Paolo. E' l'urlo in gola che ti ha scartavetrato l'anima, esplodendo come se potessi contrastare quel disastro naturale con la tua voce, con la tua rabbia e con la dimostrazione che l'uomo sarà sempre capace di una ultima risorsa inestinguibile, da centinaia di anni. Riemergere quando si è toccato il fondo, riemergere lottando per risalire e tornare a galla. Sopra il minimo, Over The Under. Certo, il secondo disco mancava da cinque anni (come il secondo è stato pubblicato ben sette anni dall'esordio, N.O.L.A. Del 1995), per cui è assolutamente ovvio pensare che alcune tracce fossero già presenti, magari proposte nell'immensa attività concertistica della band. Ma è stato questo natural distaster (per citare gli Anathema) che ha rafforzato l'intento di creare una nuova colonna dsetinata a sorreggere l'architrave dello stile down, un marchio di fabbrica che ha conquistato sempre più proseliti, al punto tale da riuscire ad appassionare anche chi non ascolta necessariamente sludge o è appassionato dei progetti da cui provengono i vari musicisti (Crowbar, Pantera, Corrosion Of Conformity, Eyehategod e gli altri meno famosi, come i Mistyk Krewe Of Clearlight, Superjoint Ritual, Viking Crown, necrophagia o Christ Inversion). Tuttavia c'è da dire che questo disco è diverso dai precedenti, senza ombra di dubbio all'ascoltatore dotato di buon orecchio non sfuggiranno alcune novità ed elementi che, pur avendo a che fare con influenze che spuntano dal passato, sono sicuramente diversi rispetto agli altri due dischi. I brani nel tipico stile del gruppo ci sono e sono, anche numerosi, rassicurando l'ascoltatore e l'affezionato che il cambiamento non sarà mai eccessivo e l'attitudine non cambia (3 suns and 1 star, N.O.D., The Path), già dalle prime battute. La premiata ditta Windstein/Keenan continua a sfornare ottimi riffs ed assolit, con alcuni passaggi in cui osannano Iommi; ma sicuramente la prestazione migliore del disco è fornita da Phil Anselmo, che riesce a ritrovare quella potenza e personalità, che lo aveva reso famoso ai tempi d'oro dei Pantera. La voce è il vero valore aggiunto perchè diventa interpretazione sentita ed ispirata, costruita sapientemente per ogni singolo brano, cercando di sviluppare quelle sfumature e quei particolari che intensificano e valorizzano la melodia. I tempi di Nola sono realtivamente passati, perchè questa volta gli amici si riuniscono per dare voce e suoni alla loro paura e rabbia, musicando e dando forma a qualcosa che alberga dentro di loro e che non può essere compreso, se non lo si vive direttamente. Tornando al discorso novità, questo disco appare come il più maturo e sentito, con brani-frontiera che evidenziano il cambiamento mano mano che si scorre nell'ascolto : da “on march the saints”, scelto come singolo perchè il più orecchiabile e accattivante ad un immediato ascolto, si apre la stagione del grande blues e del lato più “sperimentale” della band, in cui si abbandonano talvolta le virate più sludge/metal (che continuano ad essere presente, come in Mourn, Pyllamid) per dedicarsi a momenti di intimo e appassionante blues (Never Try), misto ad un mood anni '70 , capace di sfociare addirittura nella psichedelia come His Majesty the Desert. La second aparte è caratterizzata da brani molto più lunghi, più curati e studiati, ma senza necessariamente perdere l'aggressività, alternandosi in un gioco di piano-forte come in un sistema di scatole cinesi. In sintesi i Down can't do no wrong, questo è appurato. Forse qualcuno dirà che non siamo ai livelli di Nola, visto che sono irraggiungibili. Ma ricordatevi che ogni disco dei Down è un mondo a parte, con i suoi crismi e le sue regole, incapace di essere confrontato con gli altri due. Dedico questo disco a tutti coloro che hanno perso qualcosa a New Orleans nel 2005 e nella zona di Cagliari il 22 ottobre di quest anno. Io tre giorni dopo stavo dando una mano, immerso nel fango fino alle caviglie, cercando di dare il mio aiuto anche se non certamente non conoscevo i proprietari di quella casa. Posso capire cosa vuol dire perdere tutto e lottare per salvare quello che rimane, nulla è definitivamente perduto finchè non si smette di provarci.


* bonus track contenuta nell'edizione inglese.

Sgabrioz