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sabato 18 ottobre 2008

Ulver - A Quick Fix Of Melancholy EP


Anno: 2003

Etichetta: Jester Records

Line Up:
Trickster G. (Kristoffer Rygg): Vocals, Programming
Tore Ylwizaker: Programming, Keyboards
Jørn H. Sværen: varie ed eventuali

Tracklist:
1. Little Blue Bird 06:35
2. Doom Sticks 04:40
3. Vowels 06:18
4. Eitttlane 05:22


Possibile che un EP di quattro canzoni, tre inediti e un remix, per 23 minuti scarsi di musica possa rappresentare il punto più alto di una carriera costellata di successi, precedenti e successivi a questa uscita, come quella degli Ulver?
Normalmente non lo sarebbe ma quello che i tre (? In realtà non si hanno indicazioni sulla line up, probabile che Jørn possa non aver partecipato) riescono a creare in così poco tempo ha dell'incredibile: sono passati tre anni dall'ultimo full lenght, "Perdition City", dopo il quale il gruppo entrò nella cosiddetta fase del silenzio, composta da tre ep e due colonne sonore di ambient/elettronica/noise completamente strumentali, in cui l'unica eccezione è rappresentata da questo "A Quick FIx Of Melancholy", disco dove Rygg torna a cantare in due brani.
Le quattro canzoni che compongono l'album hanno caratteristiche differenti ma sono profondamente legate da una malinconia e oscurità di fondo che le rende un tutt'uno, il suono scaturito è un concentrato tra l'elettronica di "Perdition City" e la decadenza degli ep del silenzio, maturato però in un'atmosfera cupa molto più radicata che entra nel profondo all'ascoltatore fin dalle prime note.
"Little Blue Bird" apre l'EP proponendo un incrocio tra ambient e leggera elettronica con una melodia ripetuta quasi ossessivamente su cui si appoggiano in netto contrasto le calde linee vocali di Rygg, mai autore di una prova di questo calibro.
"Doom Sticks" è una strumentale che riprende molto da vicino l'ambient di "Teachings in Silence", brano stupendo che però impallidisce davanti alla canzone che inizia a introdurre negli ultimi secondi, "Vowels": questo brano riassume tutta l'evoluzione e la classe degli Ulver, parte con una dolce melodia che sfocia in una parte più cupa in cui svettano le ottime vocals quasi operistiche di Rygg per concludersi strumentalmente in un climax elettronico ripreso dal tema iniziale.
L'ultima traccia era stata già presentata nel best of/album di remix uscito nello stesso anno, si tratta del remix in chiave elettronica del brano completamente folk "Nattleite" presente nel secondo disco del gruppo, "Kveldssanger", esperimento completamente riuscito in quanto nonostante musicalmente sia distante anni luce dall'originale riesce a mantenerne intatti l'epicità e l'originalità.

In conclusione è un album assolutamente da ascoltare perchè presenta gli Ulver in una veste che non riprenderanno (purtroppo) mai più, dovrebbe piacere sopratutto agli amanti di "Perdition City" e del periodo elettronico in toto ma anche a chi ha avvicinato il gruppo solo con l'ultimo "Shadows Of The Sun", a cui è accomunato dalla profonda malinconia che permea entrambe le uscite.

Emperor

Ulver - Themes from William Blake's The Marriage of Heaven and Hell


Anno: 1998

Etichetta: Jester Records

Line Up:
Trickster G. - Generation
Tore Ylwizaker - Programming
Havard Jorgensen - Guitars
E. Lancelot - Drums
"Skoll" Hugh Stephen James Mingay - Bass
Knut Magne Valle - Cables, Wires & Various Sound Contributions
Stine Grytoyr - Female Vocals
Ihsahn / Samoth / Fenriz - Voce in "A Song Of Liberty"

Tracklist:
Disco uno

1. "The Argument Plate 2" – 4:03
2. "Plate 3" – 2:48
3. "Plate 3 Following" – 1:33
4. "The Voice of the Devil Plate 4" – 2:49
5. "Plates 5-6" – 2:31
6. "A Memorable Fancy Plates 6-7" – 4:24
7. "Proverbs of Hell Plates 7-10" – 9:06
8. "Plate 11" – 2:01
9. "Intro" – 3:26
10. "A Memorable Fancy Plates 12-13" – 5:59
11. "Plate 14" – 2:08
12. "A Memorable Fancy Plate 15" – 4:51
13. "Plates 16-17" – 3:17

Disco due

1. "A Memorable Fancy Plates 17-20" – 11:23
2. "Intro" – 2:27'
3. "Plates 21-22" – 3:11
4. "A Memorable Fancy Plates 22-24" – 4:50
5. "Intro" – 3:59
6. "A Song of Liberty Plates 25-27" – 26:23

Premessa:
Composto nel 1790, The Marriage of Heaven and Hell è forse lo scritto più conosciuto e influente di William Blake, uno dei maggiori poeti inglesi della storia nato e vissuto a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, spesso accostato al romanticismo, nel quale l'autore, che imita lo stile degli scritti della Bibbia, raccontando il proprio viaggio attraverso l'Inferno esprime la propra visione della religione e la propra ostilità verso la chiesa, presentando l'Inferno stesso e Satana come degli ideali di libertà.


E' il 1998, Krystoffer "Garm" Rygg, il leader del gruppo qui noto come Trickster G. ha solo 21 anni ma ha già alle spalle 3 dischi con gli Ulver e una prestazione vocale straordinaria nel disco "La Masquerade Infernale" degli Arcturus, primo vero esempio di avant-garde nel mondo del (black) metal.
Nel recensire questo lavoro bisogna considerare prima di tutto la produzione precedente del gruppo: l'esordio risale al 1994, si intitola "Bergtatt", suona come un black metal fortemente influenzato dalla musica folk norvegese ed è da subito considerato come uno dei maggiori capolavori del black, capostipite di un genere (il black-folk appunto) che in futuro andrà molto di moda.
Nel disco successivo, "Kveldssanger" (1995), i nostri si dedicano ad un folk puro con la voce di Garm (spesso corale) accompagnata solamente da due chitarre acustiche che creano atmosfere e melodie sognanti.
Infine nel 1996 esce "Nattens Madrigal", disco di black metal puro composto da 8 canzoni, chiamate inni, dedicate completamente ai lupi, tant'è che il titolo di ogni canzone comincia con "Of Wolf And...". Lo spazio per la melodia è molto poco, addirittura ad aumentare questo alone oscuro vi è una leggenda secondo la quale il disco sia stato registrato in presa diretta in un bosco della norvegia, verità o no il lavoro è in ogni caso di ottima qualità, e con esso si chiude la cosiddetta trilogia black metal degli Ulver.

Ed ora eccoci a questo disco, forse il più ostico e, come molte volte accade, di conseguenza il meno considerato. Come detto è il 1998, sono passati due anni dall'uscita di "Nattens Madrigal" ma musicalmente è come se fosse passato un secolo: gli Ulver abbandonano completamente il black metal (e, di fatto, vengono abbandonati da una buona metà dei loro fan) per passare, in questa ottica va letto l'ingresso di Tore Ylwizaker, ad una musica sperimantale fortemente influenzata dall'elettronica, e per festeggiare questo cambiamento drastico decidono di fare le cose in grande: 2 dischi per oltre un'ora e quaranta di musica ma soprattutto la volontà di mettere in musica la più grande opera di William Blake.
Qualche tempo fa, discutendo proprio su Garm, si parlava di quanto potesse essere complicato saper interpretare al meglio, cantando, poesie scritte da altri, riferendosi alla sua prestazione in "Alone" (presente nella Masquerade Infernale), dove canta un brano di Edgar Allan Poe...ebbene, su questo disco non ci si limita ad un brano ma ad un'opera intera.
A differenza della Masquerade però il compito di Rygg non è quello di essere con la propria voce l'attore protagonista ma solo l'accompagnatore, l'interprete dell'opera stessa, e per questo scopo ci presenta, dimostrando una grande umiltà, un'ulteriore sfumatura della sua voce, quella più normale, spesso filtrata, abbandonando il timbro teatrale che tanti complimenti gli era valso per una vera e propria recitazione (o lettura, in altri casi).

Trovo sarebbe inutile analizzare tutti i brani, come un'opera va considerata tutta nel suo complesso anche questo disco va analizzato come un blocco unico, dal punto di vista musicale la struttura dei brani si regge soprattutto sull'elettronica di Ylwizaker, con le chitarre, quasi mai aggressive, che con la propria melodia accompagnano, in sottofondo, il testo. La qualità dei brani è alta ma non vi sono dei picchi compositivi che svettano rispetto al resto del disco, almeno fino all'ultima traccia, "A Song of Liberty", che a mio parere è una delle migliori canzoni mai composte dal gruppo: ospiti d'eccezione, per recitare gli ultimi versi, sono Ihsahn e Samoth (Emperor) e Fenriz (Darkthrone), con quest'ultimo che nella sua parte di recitazione, lanciato da Garm e accompagnato da un riff azzeccatissimo di chitarra, ci regala un'interpretazione magistrale.

Questo è certamente il disco della svolta per gli Ulver, un disco che ha diviso e ha fatto perdere al gruppo parecchi sostenitori, ma gliene ha fatti guadagnare del resto molti altri, un progetto ambizioso, la recitazione di un'opera intera, l'inizio della seconda parte della carriera del gruppo, quella dell'evoluzione e del cambiamento senza sosta...un disco che a mio parere va ascoltato da chi apprezza gli ultimi Ulver e ne vuole conoscere le origini, da chi apprezza i primi Ulver e non ne capisce il cambiamento, da chi magari non li conosce affatto ma apprezza Blake, certamente non un disco facile, forse troppo lungo, ma molto, molto coraggioso.

Emperor

venerdì 17 ottobre 2008

Arcturus - Sideshow Symphonies


Anno: 2005

Etichetta: Season Of Mist

Tracklist:
1. Hibernation Sickness Complete
2. Shipwrecked Frontier Pioneer
3. Deamonpainter
4. Nocturnal Vision Revisited
5. Evacuation Code Deciphered
6. Moonshine Delirium
7. White Noise Monster
8. Reflections
9. Hufsa

Line Up:
Steinar Sverd Johnsen - Keyboards
Knut Magne Valle - Guitars
Hugh Stephen James Mingay (Skoll) - Bass
Simen Hestnæs "ICS Vortex" - vocals, lyrics
Tore Moren - Guitars
Jan Axel Von Blomberg (Hellhammer) - Drums


Tornano dallo spazio gli Arcturus con un nuovo capitano, tale Simen Hestnaes, ovvero ICS Vortex conosciuto ai più per la sua militanza come bassista/cantante nei Dimmu Borgir e nei Borknagar e ai fan del gruppo per aver prestato la sua voce nel fantastico "La Masquerade Infernale" [LMI d'ora in poi per comodità] come voce principale in "The Chaos Path" e seconda voce.
Innesto più che azzeccato dopo la parentesi a dirla tutta poco felice di Øyvind Hægeland, in quanto Vortex risulta a posteriori (ma ben pensandoci anche a priori, infatti aveva destato curiosità la scelta di non chiamare subito il biondo bassista alla corte degli Arcturus) il miglior sostituto per Garm, che aveva lasciato il gruppo poco dopo l'uscita di "The Sham Mirrors" per dedicarsi completamente al suo progetto principale, gli Ulver, e ad altre idee che aveva in mente.
La scelta di Vortex permette agli Arcturus di poter andare in tour in modo da farsi conoscere maggiormente anche in sede live (in quanto Garm come è noto non crede nella musica dal vivo) e permette inoltre una maggiore velocità nel songwriting, poichè Garm era sempre molto impegnato e tra un disco e l'altro rischiavano di passare anni di inattività; detto questo, Garm rimane un cantante inimitabile che sarà rimpianto dalla maggior parte dei fan del gruppo nonostante Vortex offra un'ottima prestazione sul disco, per la sua genialità, per i suoi toni vocali incredibili e anche per i suoi testi, sempre perfettamente centrati alle atmosfere dei dischi.

La scelta di pubblicare in rete quache mese prima dell'uscita ufficiale del disco la performance live di "Deamon Painter" è abbastanza strana, in quanto è l'unica canzone che si lega in modo vero e proprio a LMI mentre il resto del disco segue altri binari: mentre ci si poteva aspettare una ripresa dei suoni di "The Sham Mirrors" gli Arcturus optano per una maggiore semplicità musicale che riporta al primo disco, "Aspera Hiems Synfonia", e per un maggiore utilizzo delle chitarre.
E' evidenziata maggiormente la vena prog del gruppo, esempio lampante la strumentale "Reflections", ma le atmosfere rimangono sempre quelle tipiche del gruppo, molto teatrali e coinvolgenti.
Il disco è suonato adattandosi alle capacità vocali di Vortex, che si mette in mostra soprattutto per i suoi splendidi acuti, e che rispolvera per l'occasione in alcune occasioni (poche a dire il vero) il cantanto in scream. Non si sbilancia però troppo verso il cantato prettamente teatrale che aveva utilizzato in "The Chaos Path" (dove riusciva a mettere in ombra Garm) ma cerca di non spingersi troppo oltre rimanendo nel suo territorio preferito, sfornando però un'ottima prestazione, e ottima anche la scelta di affiancargli una voce femminile (tale Silje Wergeland) come nel caso di "Evacuation Code Deciphred", la cui parte finale è da brividi.
Particolare menzione a quella che per me è la migliore canzone del disco, "Moonshine Delirium", che entra di forza a far parte dei classici del gruppo assieme a perle quali Ad Astra, Alone e Kinetic grazie ad un lavoro incrociato di tastiere/chitarre e ad un ritornello molto evocativo.
L'aspetto maggiormente negativo è lo scarso utilizzo delle tastiere rispetto ai 2 dischi precedenti, che a parte un fantastico assolo in "Deamon Painter" brillano in poco altro risultando scavalcate dalle chitarre, particolare abbastanza strano visto che il compositore principale del gruppo è proprio Sverd.

Quindi gli Arcturus non deludono ancora una volta le aspettative dei più cambiando nuovamente rotta, ma questo paradossalmente, nonostante come detto l'album sia meno ricercato dei precedenti, è un disco che necessita di molti ascolti per essere capito e apprezzato fino in fondo dai fan del gruppo.

P.S. piccola annotazione: nella versione in digi-pack la seconda traccia, "Shipwrecked Frontier Pioneer" che tra l'altro è tra le migliori del disco, risulta di volume inferiore al resto del disco e forse mixata anche in modo diverso...Season Of Mist, ma controllare prima di fare uscire i dischi?


Emperor

giovedì 16 ottobre 2008

Arcturus - The Sham Mirrors


Anno: 2002

Etichetta: Ad Astra

Line Up:
Kristoffer Rygg (Trickster G.) - Vocals
Steinar Sverd Johnsen - Keyboards
Hellhammer - Drums
Knut M. Valle - Guitars
Dag F. Gravem - Bass
Starring:
Ihsahn - Spitting voice on track 6
Mathias Eick - Ubu's horn on tracks 3,4 and 6
Hugh Steven James Mingay - Low frequentation on track 6

Tracklist:
1. Kinetic 05:25
2. Nightmare Heaven 06:05
3. Ad Absurdum 06:48
4. Collapse Generation 04:13
5. Star-crossed 05:01
6. Radical Cut 05:08
7. For To End Yet Again 10:33


L'impatto de "La Masquerade Infernale" sulla scena estrema norvegese fu fortissimo, e non poteva essere altrimenti, l'attenzione verso questo nuovo genere nascente, l'avant-garde, crebbe in maniera esponenziale e nacquero, o si confermarono, molti gruppi che prima dell'uscita del disco non erano riusciti a sfondare, creando una piccola scena i cui attori erano quasi sempre gli stessi nomi (Skoll per esempio ha suonato in Ulver, Arcturus, Ved Buens Ende).
Questo movimento tra la fine degli anni '90 e i primissimi del 2000 sfornò una serie di piccole gemme con una continuità incredibile, solo un nome non si era più sentito dopo il 1997, ed era proprio quello degli Arcturus.
C'era bisogno di una pausa dopo un disco di svolta come "La Masquerade Infernale", non poteva essere altrimenti, e l'attenzione verso questa nuova uscita del gruppo faro dell'avant-garde era spasmodica: Kristoffer Rygg (per chiarezza lo chiamerò così d'ora in poi, basti sapere che Garm e Trickster G. sono sempre lui) in quei cinque anni di pausa compose tra full lenght ed EP cinque dischi coi suoi Ulver, Hellhammer come al solito girò tra molteplici gruppi, solo Sverd non partecipò a nessun progetto parallelo.
Ci vollero due anni, dal 2000 al 2002, tra pause per i vari impegni con altri gruppi e sessioni di prove, per comporre il nuovo attesissimo disco, "The Sham Mirrors".

Welcome
this transmission
from a fallen star


E' così che l'ascoltatore viene introdotto al disco, dalla frase che è diventata la più conosciuta del gruppo, e dalla canzone che ben presto è diventata una delle più apprezzate dal pubblico, Kinetic: fin dalle prime note è ovvio che "La Masquerade Infernale" è solo un ricordo che gli Arcturus si sono lasciati alle spalle, non avrebbe avuto senso continuare in quella direzione, il suono dunque, ideato dai soliti due compositori del gruppo, Sverd e Rygg, torna in un contesto più metal in cui però sono le tastiere di Sverd a dettare legge, elemento fondamentale su cui sono poggiate tutte le canzoni.
Kinetic è la perfetta sintesi di quello che sarà il disco, cambi di ritmo, parti atmosferiche contrapposte a parti più tirate, rigorosamente solo clean vocals impostate su toni più "normali" rispetto al passato, con Rygg che sforna una delle sue migliori prove, e tastiere in primissimo piano che spesso si liberano in assoli fenomenali.
Nightmare Heaven ha un inizio strabordante, con un muro di chitarre seguite a ruota dalla voce di Garm che ci introduce a quello che a mio parere è il miglior assolo di tastiera del disco

This negative kingdom
hey horrible and white
the angels all stone
passing their years
hoping to be saved
from oblivion
by oblivion


La forza degli Arcturus sta nello stupire, quindi se dopo una prima parte dai ritmi elevati ci si aspetterebbe una continuazione sulla stessa riga ci si sbaglia, veniamo fatti aspettare per due minuti con una parte più atmosferica, attesa ripagata dal ri-esplodere quasi improvvisamente della canzone grazie alle tastiere di Sverd, seguito immediatamente da un Rygg fantastico, che dimostra come possa controllare agevolmente anche toni più acuti.
Ad Absurdum è una delle canzoni che più ricordano i vecchi Arcturus, i ritmi impartiti, come al solito, da Sverd sono concitati ma è Rygg, che sembra trovarsi alla perfezione col tastierista, a fare la differenza, con quattro/cinque cambi di tono soltanto nei primi minuti, a dimostrazione di una duttilità vocale introvabile in qualsiasi altro cantante.
Collapse Generation, il cui testo è scritto da Hellhammer, è una canzone quasi completamente strumentale che si regge sempre sui ritmi molto alti imposti da Sverd con soltanto un intermezzo cantato, impossibile non rimanere contagiati dalle melodie sprigionate in questi quattro minuti.
Il contrasto è evidente nella canzone successiva, difatti mentre nella precedente si avevano ritmi sostenuti, Star-crossed è una canzone molto più atmosferica, introdotta dal solo piano di Sverd che dimostra ampiamente la sua indole classica, per continuare poi con parecchi cambi di ritmo poggiando sul lavoro di Rygg alla voce, tra acuti e richiami alla famosa voce "teatrale" della Masquerade.

Spit white speech
the voice is mine
the skin of the slit
cut cigarette size

The butt size head
voluptuous white
cum cigarette slit
the spitting line


Non c'è però nemmeno il tempo di respirare che appena finita la canzone l'ascoltatore viene travolto dalla potenza di Radical Cut, ultimo residuo di un passato black metal ormai dimenticato. I ritmi sono elevatissimi per quella che è forse la canzone migliore del disco, alla voce troviamo un ospite di lusso, Ihsahn degli Emperor in evidente stato di grazia, che con il suo scream sforna una prestazione paurosa duettando perfettamente con le tastiere di Sverd che si lasciano andare anche a più assoli, seguiti a ruota da un Hellhammer sempre perfetto.
L'album scorre via senza quasi accorgersene tanto si rimane coinvolti nelle atmosfere spaziali degli Arcturus, si arriva quindi alla conclusiva For To End Yet Again, la canzone più lunga del disco, che raccoglie in dieci minuti lo spirito degli Arcturus versione 2002 alternando parti di piano atmosferiche (fenomenale quello che fa Sverd a metà canzone), a parti più tirate, vocals teatrali a vocals più normali, il tutto arricchito da un testo al di fuori di ogni schema...da brividi la ripresa dopo i tre minuti di solo di Sverd con il famosissimo

Police, police, police
please stop the Euro
from binar bin Laden


che introduce la conclusione di quella che sarà l'ultima canzone di Rygg con gli Arcturus.

Dunque attesa ripagata, gli Arcturus dovevano confermare quanto fatto con "La Masquerade Infernale" e ci riescono in pieno sfornando il loro secondo capolavoro, modificando nuovamente il proprio suono verso qualcosa di innovativo e mai sperimentato, a voi decidere se l'allievo (Sham) abbia superato il maestro (Masquerade).

Emperor

mercoledì 15 ottobre 2008

Arcturus - La Masquerade Infernale



Anno: 1997

Etichetta: Music For Nations/Misanthropy

Tracklist:
1. Master of Disguise 06:43
2. Ad Astra 07:36
3. The Chaos Path 05:32
4. La Masquerade Infernale 01:59
5. Alone 04:39
6. The Throne of Tragedy 06:33
7. Painting my Horror 05:59
8. Of Nails and Sinners 06:06

Line Up:
Kristoffer "Garm" Rygg - Voce
Knut Magnus "Aismal" Valle - Chitarre
Hugh Stephen James Mingay, aka. Skoll - Basso
Steinar Sverd Johnsen - Tastiere
Jan Axel Von Blomberg (Hellhammer) - Batteria
Guest:
Simen Hestnæs "ICS Vortex" - Lead & Backing Vocals
Carl August Tidemann - Guitars

Nel 1997, un anno dopo l'uscita del primo full-lenght Aspera Hiems Symfonia, ecco che gli Arcturus fanno uscire un secondo disco, "La Masquerade Infernale": la formazione comprendeva l'onnipresente Hellhammer alla batteria, Skoll al basso, Knut Magnus Valle alla chitarra (con la partecipazione anche dell'ex Carl August Tidemann), Garm alla voce e infine il compositore nonchè fondatore del gruppo, ovvero il tastierista Steinar Sverd Johnsen. Aspera Hiems Symfonia era un disco di black metal melodico di ottima fattura con molti elementi interessanti e in cui emergevano soprattutto le melodia superbe create da Sverd alla tastiera, che si possono trovare praticamente immutate in "Nexus Polaris" dei Covenant.
Quindi per il seguito ci si aspetterebbe un normale disco di black metal melodico, ma gli Arcturus hanno dimostrato nel corso degli anni di ricercare un'evoluzione musicale continua e riescono a comporre un disco che fonderà (o almeno detterà le caratteristiche principali) un nuovo genere, l'avant-garde, che si potrebbe semplicemente definire l'evoluzione del black metal, che è l'unico modo che trovo per descrivere questo genere davvero molto complesso e ricco di influenze e spunti innovativi.

Primo disco (se non si considera "Kveldssanger" degli Ulver) da cui Garm inizia a usare solo le clean vocals, che vanno ben oltre il solito concetto di clean vocals che si potrebbero affiancare a un cantante black: infatti con la sua voce magnetica Garm usa un cantato che si potrebbe definire teatrale, in perfetto tema con l'album quindi, che praticamente non utilizzerà più nei dischi successivi e che era stato utilizzato solo in alcune parti di "The Olden Domain" dei Borknagar.
Il disco contiene esclusivamente grandi pezzi quali Ad Astra, canzone quasi completamente strumentale, che si sviluppa completamente sulle melodie della tastiera di Sverd con i primi 3 minuti e mezzo in cui viene ripetuta la stessa melodia che sfocia in un assolo inizialmente di chiatarra che apre semplicemente al più grande assolo di tastiera che abbia mai sentito, nel quale Sverd dimostra le sue grandi doti e la sua vena puramente classica.
Successivamente vi è The Chaos Path, dove insieme a Garm duetta il nuovo cantante degli Arcturus, Simen Hestnæs, meglio conosciuto come ICS Vortex ovvero il cantante del terzo e quarto album dei Borknagar e bassista (e in teoria anche seconda voce) dei Dimmu Borgir:
se Garm aveva già dimostrato le sue grandi capacità vocali, anche Vortex dimostra di saper cantare in questo stile "teatrale", e i 2 danno vita a un duetto indimenticabile sorretto da una canzone di per sè già fantastica come al solito basata sulla tastiera di Sverd.
Dopo l'intermezzo strumentale della titletrack, onestamente di scarsa utilità, parte Alone, il cui testo altro non è che una poesia di Edgar Allan Poe ad indicare anche l'elevato livello dei testi che non fanno assolutamente da contorno al disco ma sono un aspetto fondamentale di esso: la canzone parte con la doppia cassa di Hellhammer che per l'unica volta nel disco può dare sfogo anche alla sua bravura nelle parti veloci anche se dopo pochi secondi è costretto a smettere per dare il via a un'altra stupenda canzone basata sulle tastiere ma in cui anche la chitarra di Knut Magnus Valle, un pò in secondo piano su questo disco, è protagonista oltre all'immancabile voce di Garm.
Dopo una prima parte del genere non sembrerebbe facile concludere il disco sullo stesso livello, invece gli Arcturus riescono addirittura a superarsi, grazie a due canzoni da urlo quali The Throne Of Tragedy e Of Nails nd Sinners: la prima viene introdotta da una voce sussurrata, sinistra, che esplode in un coro travolgente di Garm mentre la seconda, posta in chiusura al disco, è quella che ricorda più da vicino i passati in ambito black melodico del gruppo con parti più tirate accompagnate da rare scream vocals che si inseriscono nella consuetà maestosità che contraddistingue il disco, forse la canzone più ispirata che conclude in maniera egregia un disco già di per sè fantastico.

Insomma il disco è stupendo ma non è assolutamente di facile ascolto, anzi, visto che nonostante la formazione sia interamente (black) metal il disco in questione non c'entra praticamente nulla con il metal in quanto è davvero un genere a parte, inclassificabile...
La prova di tutti i musicisti, anche di quelli che sono lasciati apparentemente in secondo piano ma che sono ugualmente fondamentali per il disco e per le melodie è eccezionale e mette in mostra le grandi doti tecniche di ogni singolo componente, menzione d'onore va però fatta alle due menti da cui è uscito questo capolavoro, Sverd, compositore della quasi totalità dei pezzi, e Garm, autore di una prova che rimarrà immortale nel tempo.

Emperor

martedì 14 ottobre 2008

Arcturus - Aspera Hiems Symfonia


Anno: 1996

Etichetta: Century Media

Line Up:
Kristoffer "Garm" Rygg - Vocals
Carl August Tidemann - Guitar
Skoll - Bass
Steinar Sverd Johnsen - Keyboards
Hellhammer - Drums

Tracklist:
1. To Thou Who Dwellest in the Night 06:46
2. Wintry Grey 04:34
3. Whence & Wither Goest the Wind 05:15
4. Raudt og svart 05:49
5. The Bodkin & the Quietus (...to Reach the Stars) 04:36
6. Du nordavind 04:00
7. Fall of Man 06:06
8. Naar kulda tar (Frostnettenes prolog) 04:21


Era il 1996, a quasi dieci anni dalla loro nascita, dopo l'uscita di due EP, My Angel (1991) e Constellation (1993), gli Arcturus davano alla luce il loro primo full lenght, Aspera Hiems Symfonia.
I musicisti sono quelli classici, che oggi sono considerati delle stelle mentre all'epoca erano praticamente degli esordienti, con Garm alla voce, Skoll al basso, Hellhammer alla batteria, Tidemann alle chitarre e infine Sverd, fondatore e principale compositore del gruppo, alle tastiere.

Non bisogna commettere l'errore di sottovalutare questo disco, la cui unica colpa è quella di essere stato il prologo all'uscita di due capolavori come La Masquerade Infernale e The Sham Mirrors.
Il disco, composto dalle quattro canzoni di Constellation più quattro inediti, propone un black metal sinfonico dalle forti atmosfere, ispirato ovviamente dal black metal classico e dalla allora emergente corrente sinfonica (Emperor su tutti), distaccandosi però dai canoni con la loro musica sempre sopra le righe.
Riescono quindi nell'impresa di comporre un disco totalmente black metal che però risulta anche digeribile per chi il black metal non lo ascolta, grazie alle onnipresenti tastiere di Sverd, vero compositore del gruppo, e alle vocals di Rygg, in quanto poche volte prima di allora si era osato sacrificare le scream vocals per dare così tanto spazio a quelle in clean.
Nonostante il disco sia incentrato sulle tastiere, a differenza di quello che succederà nelle uscite successive, anche le chitarre e il basso hanno un ruolo fondamentale, permettendo di sentire quello che Tidemann e Skoll sanno offrire, oltre alla costante presenza di Hellhammer su livelli stratosferici.
Gli episodi migliori si hanno con l'opener, la travolgente To Thou Who Dwellest in the Night, che dopo un veloce inizio di chitarra lascia spazio alle bellissime tastiere di Sverd che introducono il gelido scream di Garm, per proseguire con l'alternarsi di ritmi veloci a ritmi più lenti, formula spesso utilizzata dagli Arcturus.
Raudt Og Svart è la canzone più ripescata dall'esordio in sede live ed è diventata una sorta di classico, dopo un riff di chitarra iniziale accompagnato da basso e tastiere la canzone si sviluppa su toni non particolarmente sostenuti lasciando spazio anche ad un buon assolo di chitarra che ci introduce alla parte finale in cui Garm introduce sè stesso con uno scream molto particolare per lanciarsi in un coro finale da brividi.
Ed infine quella che è la canzone migliore del disco a mio parere, Fall Of Man che è un misto di epicità e furia black metal: dopo un inizio tastieroso viene lasciato maggiore spazio alle chitarre, ma è da metà in poi che il gruppo fa scintille, con Garm che si esibisce in uno dei suoi famosi "cori" in clean, che precede e segue un assolo di chitarra fantastico, non particolarmente veloce, magari non particolarmente tecnico ma che si integra perfettamente alla canzone, da brividi.
In ogni caso tutte e otto le canzoni sono di ottimo livello, tra parti più atmosferiche e parti più pesanti, difficile non citare la grande Du nordavind o Wintry Grey.

La produzione per un disco black metal dell'epoca è buona, il disco però è stato remixato, riprodotto e in parte anche risuonato (con l'aggiunta di qualche parte in clean da parte di Garm) in occasione dell'uscita del doppio cd che propone i primi due EP e lo stesso Aspera, vista anche la scarsa reperibilità del disco d'esordio consiglio a tutti di prendere questo Aspera Hiems Symfonia / Constellation / My Angel, che propone a mio parere una versione addirittura migliore dell'originale ad un prezzo conveniente.

Emperor

Dead Meadow - Old Growth (2008)



Anno: 2008

Etichetta: Matador Records

Line Up:
Jason Simon - guitar, bass
Steve Kille - bass, sitar
Stephen McCarty - drums

Tracklist:
1. Ain't Got Nothing (To Go Wrong)
2. Between Me and the Ground
3. What Needs Must Be
4. Down Here
5. 'Till Kingdom Come
6. I'm Gone
7. Seven Seers
8. The Great Deceiver
9. The Queen of All Returns
10. Keep on Walking
11. Hard People/Hard Times
12. Either Way

Se avete presenti questi Dead Meadow, credo che rimarrete delusi dall'ascolto dell'ultima fatica del terzetto. Non perchè il disco non sia oggettivamente ben suonato o privo di idee, ma semplicemente perchè non è un disco di heavy psych - o psichedelia lisergica e distorta dir si voglia - a cui ci aveva abituato il terzetto di Washington DC. O meglio, la psichedelia è presente ma non è preponderante e uber alles, come accadeva in Feathers o in Shivering King and Others, o addirittura nel disco omonimo: tutti grandi lavori che erano stati capaci di piazzare i Dead Meadow ai vertici delle band psichedeliche moderne e attuali, senza sfigurare affianco a band di grandissimo livello come i Colour Haze o i 35007, per citarne due conosciutissime. Quello che manca in Old Growth è proprio la straripanza di una psichedelia acida, figlia dei '70 e dei '60, ma mai derivativa o ripropositiva di sonorità forse ammuffite e già ben realizzate dai pink floyd barrettiani o dai 13th floor elevators. No, manca quella capacità di manifestare attraverso la musica, immagini, colori e sensazioni reali come sfrenate corse nelle praterie americane, guidati da un totem indiano. Mancano quelle folgoranti melodie che permettevano l'obnubilamento della coscienza, allegerivano la testa e non ossigenavano perfettamente i nostri centri nervosi centrali, visto che la percezione sensoriale appariva distorta e poco attinente alla realtà. Ma, hey, non è tutto perduto. Questo è un gran bel disco: da viaggio, ma solo fisico e non più un bel trip da mescalina. Niente welcome to Tijuana, giusto un Welcome to Yellowstone. Un ottimo album da viaggio on the road, o una splendida colonna sonora per avventure e giornate passate a contatto con la natura, cosa che peraltro invoglia la splendida copertina. Ora che vi ho descritto cosa NON troverete, passiamo a elencare i pregi di questo disco:
- ha un'ottima melodia, con dei ritornelli molto orecchiabili e perfettamente godibili. Non ci sarà mai nulla di così intricato da risultare indigesto.
- la psichedelia è ancora presente, soprattutto nelle canzoni più lunghe Ain't Got Nothing (To Go Wrong), The Queen Of All returns), così come la presenza del sitar nel settimo brano.
- un rock che si lega di più alla struttura canzone, con un numero maggiore di brani e con uan minore durata: il massimo sono i 6 minuti circa del primo brano, mentre gli altri vanno dai 2 ai 4-5 minuti. Un disco breve, ma con una sua identità.
- le deviazioni sono verso un garage-blues americano, più folk cantautorale che punk-detroit style. Prendete con le pinze quest'affermazione: hanno qualche punto di contatto con Howl dei Black rebel Motorcycle Club. Sarà il tipo di voce, più trascinata e figlia di Dylan-Reed, o l'uso di una chitarra acustica di grande atmosfera.
- i cambiamenti nel sound possono essere dovuti all'etichetta: La Matador records vede tra le sue fila Cat Power, Yo la tengo, belle and sebastian (ed in passato ha avuto Arab Strap, Boards Of canada, Unsane e Interpol).
Insomma, per il sottoscritto, un lavoro che si guadagna un sette tondo e gustoso, un disco delicato e molto maturo, ma non certo il più psichedelico del combo.


Sgabrioz

domenica 12 ottobre 2008

Dead Meadow - Feathers (2005)




Anno: 2005


Etichetta: Matador


Tracklist:
Let's jump in
Such Hawks Such Hounds
Get up on down
Heaven
At her open door
Eyeless gaze all eye/Don't tell the riverman
Stacy's song
Let it all pass
Through the gates of the sleepy silver door

Il viaggio era iniziato così, con un pesantissimo album eponimo e tanta voglia di fare una sequela tra il meglio della psichedelia, dai Grateful Dead, agli Spaceman3 ai 13Th Floors Elevetor, magari alle origini tutto condito da una maggior vena heavy, talvolta a la Black Sabbath / Blue Öyster Cult , talvolta Pink Floydiana / Hawkwindiana, poi le cose si miscelarono e maturarono molto meglio in Howls From The Hills, per poi farsi più folk-darkeggianti e attuali in Shivering King And Others.Feathers alla sua uscita sembrò dare un taglio netto nella carriera dei Dead Meadow, qualcuno ci vide l'album della maturità, tutti gli altri, semplicemente il loro album più degno di nota. L'entusiasmo è in parte giustificato dal fatto che in due anni, forse qualcuno aveva dimenticato il capolavoro Shivering king and others, o forse dall'entrata di Cory Shane alla seconda chitarra, e alla vistosa maturazione di tutti i componenti della band, non più una carovana trascinata dal cantante-chitarrista Jason Simon, ma un quartetto di musicisti professionisti, forse anche troppo ormai.La coincisione e la professionalità del sound fa si che l'album Feathers non sia altro che uno strenuo tentativo di trasformare una band nata per le jam in un gruppo che scrive e suona canzoni, il che è già una forzatura, almeno se si oltrepassa il punto di non ritorno di Shivering king and others, che rappresenta tutt'ora il loro equilibrio perfetto tra improvvisazione e lucida composizione. La maggior parte dei brani è tra i quattro e i cinque minuti e fa un'opera di coazione psicologica verso l'ascoltatore, praticamente forzato alla paranoia e a sprofondare nella depressione sotto coltri di chitarre acide, ma non così varie ne suggestive come in passato, però forse più claustrofobiche possibile. Ma se qualcuno ci ha visto il capolavoro,il motivo ci sarà. I pezzi sono tutti criptici, misteriosi, non desertici, semplicemente ossessivi, e ogni tanto hanno quell'alone metafisico che è capace di stregare come la breve Such Hawks Such Hounds, che si avvicina alla tradizione americana (passando per i Doors) molto più che in passato. Magari qualcuno ci ha trovato giustamente una maggiore vena melodica, come nel pop psichedelico di Stacy's Song, una chicca delicata in un mare di pesantezza. Il blues cadenzato fino a stonarsi di Get Up On Down riesce bene nel suo intento solo grazie a delle chitarre molto affilate, che si sanno mantenere sveglie nonostante la ripetitività e sono capaci di provocare dolori nel finale. Languido Jason in At Her Open Door, fa i conti con una composizione orecchiabile e se non altro allenta la presa con qualce concessione alla melodia e all'ascolto, salvo l'inevitabile piccola jam nel finale, stessa tecnica adottata in Eyeless Gaze All Eyes/Don't Tell The Riverman, che spinge anche olte, partendo da una canzone acid blues ancora più lenta e misurata, e sfociando su un esito ancora più rarefatto e dilatato-rallentato al limite dell'inascoltabile, anzicchè roboante come in passato. Fin qua sembra una soffice e delicata mazzata capace di sconvolgere e sedurre, anche se non di certo superiore alle jams galattiche degli album precedenti.

L'immedesimazione totale musicista-musica che è tipica della storia della psichedelia qua avviene in una mimesi con gli elementi della natura, che sembrano rivivere e traspirare tra i solchi del disco, tra canzoni che sembrano legnose, altre che sembrano intagliate nelle nuvole, altre che sembrano suonate sott'acqua, tra bolle d'aria, altre vibranti sin dal centro della terra, e sussultano soffocate e sorde sotto i piedi, ma pur sempre percepibili coi sensi, ora solo con flebili vibrazioni, ora solo con il tatto, ora solo con l'immaginazione. e la composizione striminzita non è altro che un modo per dare solo un principio di canzone, e lasciare che sia l'ascoltatore e la sua mente a fare il resto del viaggio. Metodo induttivo e naturalismo: questo è il punto focale della scienza dei Dead Meadow.

Superlativo invece il finale, un breve ritorno al passato, con Let It All Pass, tutt'altro che implicita, ma ampiamente sviluppata in tutte le sue multiformi e vulcaniche divagazioni addirittura a metà tra acid blues estremo a la Blue Cheer, però rallentato fino alla nausea, trovate tecniche a la Cream, dilatazioni lisergiche e sfumature Barrettiane. In conclusione poi, una canzone senza titolo, che inizia dopo due minuti di sfuriata percussionistica intitolata Through The Gates Of The Sleepy Silver Door, che fa da intro a una suite innominata lunga quattordici minuti, che è di gran lunga il pezzo più efficace della carriera della band inglese (nonchè continuazione ideale del primo pezzo del loro primo album), dirompente, incisiva, assolutamente variegata, fatta di momenti "estremi" e punte di melodia, attimi di sconvolgimento lisergico, o tendenze quasi kraut rock e riprese del discorso seppur brevi ma capaci di tenere in piedi un minimo di coesione. In totale controtendenza con il resto dl disco, un punto di tale intensità e densità che, come un buco nero, risucchia tutti i corpi circostanti, deforma lo spazio e come si suol dire, chi si è visto si è visto, questi sono i Dead Meadow e sono fatti così, quando meno te l'aspetti, in conclusione all'album, con un colpo di coda cambiano tutte le carte in tavola, e ti fregano pure questa volta.
John

Dead Meadow - Shivering King And Others (2003)


Etichetta: Matador

Anno: 2003

Tracklist:

I Love You Too
Babbling Flower
Everything's Going On
The Whirlings
Wayfarers All
Good Moanin'
Golden Cloud
Me and the Devil Blues
Shivering King
She's Mine
Heaven
Raise the Sails



Nei precedenti Dead Meadow e Howls From The Hills, era venuta fuori una band prolissa e roboante, pesante ed estremamente capace di coinvolgere con i suoi trip infuocati alternati a ninnananne stralunate. Ora, a parte l'ovvia maturazione nella tecnica e il chiarimento sulle idee e sulle intenzioni, c'è da registrare un dato molto semplice: vengono fuori le canzoni.Non un magma di jam polverose e crepuscolari, ma una serie di immagini (pur sempre sfuocate) poste una accanto all'altra, come perle di un rosario che scivola tra le dita di un duellante prima del duello.Dopo un po è stancante l'espediente, ma una musica così immaginifica è difficile da spiegare senza ricorrere a metafore, e se fin ora il congegno era quello del viaggio notturno o dell'indigestione di suoni che fa male fino a stonare (vedi Dead Meadow e Howls From The Hills), ora anche gli stessi Dead Meadow sono più concreti e a parte qualche episodio, propongono canzoni più brevi e più intense, meglio suonate, più musicali, e in realtà molto meno dedite alla reinterpretazione. Da hippy fuori tempo i Dead Meadow diventano formidabili interpreti della confusione dell'era post-millenniumbug. Non suonano ne antichi ne moderni, ma solo alterati, non suonano space rock ne stoner rock, ma il finale di I Love You Too richiama echi di chissà dove, e quell'evanescenza assorda e allo stesso tempo disorienta, marci e slabbrati, sabbiosi ma più che "desertici" sono inceneriti, bruciati, andati a male, e infatti il senso di canzone peritura, di fine imminente è sempre pronto a risucchiare tutto, in una paranoia senza fine, come in Everything's Going On, che spezza le ginocchia per la pesantezza di quell'atmosfera, come il duellante nell'attesa del duello: recita due preghiere, sputa due o tre maleparole e qualche bestemmia, e poi aspetta, aspetta attento e immobile, pronto a scattare o a schiattare, il che è la stessa identica situazione che si ricrea nel disco. Solo che il duello a volte non c'è nemmeno, c'è solo un po di polvere che si alza, qualche passante che scoppia in pianti isterici. E se la formula non è inedita, quantomeno in Babbling Flower è splendente più che mai, con un unico enorme lancinante solo di chitarra che è una esplosione blues che tra l'altro sa più di anni '90 che di naftalina. Nulla che sia recuperato dalla soffitta, spesso sembra solo di sentire i primi Radiohead sotto un'altra pelle, più acidi, o semplicemente più rozzi, o magari con i Radiohead non centrano nulla, ma non centrano più niente nemmeno con i Black Sabbath e Pink Floyd, ma si posizionano su territori sempre più personali e indipendenti, e se proprio devono rivolgersi a captare qualcosa dal passato, vedi un (per loro) inedito Zeppelinismo drogato in Whirlings, mistica e palpabilmente commossa, o forse è solo un po di polvere che brucia gli occhi dei duellanti, ancora fermi ad assaporare quel che resta dei filtri tra le loro labbra. Ormai è tutto finito, come quelle sigarette ridotte a un nulla, e tutto il disco è un po come fumarsi il filtro. Tutto bruciato, incenerito, faticoso come un parto gemellare, come la title track, durissima tutta singhiozzi e inerzia a colpi di coda metallici sempre eccessivi, colmi di sbavature fino alla deformità, o a volte anche ridotto all'osso, come la placida Good Moanin', che vede un netto miglioramento anche nei pezzi completamente acustici, prima confinati a un angolo tanto per prendere respire dal tour de force psichedelico, e invece ora parte viva dello show, come in un costante gioco di luci tra penombra e neon che fanno fatica ad accendersi tra mille sfarfallii, e dopo due finte si spengono di nuovo, corrotti, bruciati, finiti anche loro. Musica del collasso di nervi. Il momento in cui l'elastico di spezza e assume una forma diversa e non riconducibile a quella iniziale, corrotto, alterato.


Nel finale, la redenzione, dopo la rottura e da levastazione, il logorio interiore degli ultimi sgoccioli di vita, finalmente, il paradiso: Heaven, visione celestiale conclusiva di questo lungo viaggio al confine della vita. Tutto è finito e non resta che contemplare il cielo che ora si sgombra dai nuvoloni, giusto il tempo di abbozzare un altro inno folk rock al superamento della vita, la canzone dello scioglimento dei nodi, il pezzo che svela e annulla le contraddizioni, nella semplicità e nella pulizia di una chitarra che si erge su un tappeto di vibrazioni sottili e dense, l'ozono che si ritira, si alza e anche esso, come la vita, trascende, e nel viaggio forse emette dei suoni simili a Raise The Sails, suggestione conclusiva e definitiva fatta di poche note accennate e dilatate all'inverosimile, è tutto l'ambiente circostante che risuona, semplicemente la terra che si allontana, il mondo che si fa sempre più piccolo e relativo, nel contemplare l'inifinitezza dell'assoluto, man mano che il pezzo poi prende forma e si fa sempre più epico, definito e altisonante. Un volo enorme, come passare in due pezzi dal folk rock ad un muro sonoro post rock acido, ma questo forse è tutto il senso del disco, e quel marciume e quell'alterazione dell'inizio non era altro che la premessa necessaria per coniare una nuova formula dallo spettro enormemente più ampio rispetto a qualsiasi cosa mai fatta dai Dead Meadow.

John