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venerdì 10 ottobre 2008

Dead Meadow - Howl From The Hills (2001)




Etichetta: Tolotta

Anno: 2001

Tracklist:
Drifting Down Streams
Dusty Nothing
Jusiamere Farm
The White Worm
The One I Don't Know
Everything's Going On
One and Old
The Breeze Only Knows


Howls From The Hillssi assume a stomaco pieno, anzi traboccante, perché la digestione deve privarvi di tutte le energie, in modo tale che siate predisposti a farvi trasportare. Inserite il dischetto nello stereo, pompate il volume al massimo, chiudete le tapparelle in modo tale che nella stanza il sole possa filtrare attraverso i buchi e si proietti sulla parete corrispondente, formando una specie di cielo stellato nel buio della vostra stanza, che potrete osservare una volta che vi sarete stesi sul letto.

Nell’oceano dello stoner ci sono album che ti possono eccitare, album che ti fanno scatenare, poi ci sono album come questo, che ti ipnotizzano. L’introduzione di Drifting Down Streams serve proprio a incantare l’ascoltatore, come fosse un serpente nella cesta; è difficile resistere a quel vibrato che senti proprio dentro la testa, e così resti immobile e indifeso, prima dello spietato attacco del batterista che prelude l’inizio della jam, che ha a che fare con qualcosa di space rock (che è l’antipasto) con una cena lisergica e con un ammazzacaffè hard, heavy e cattivo pur con un alone pop floreal hippy che ammorbidisce sempre il tutto. Questi Dead Meadow ricalcano ne più ne meno il consueto insieme di influenze che è tipico di ogni band del genere, quindi inutile sfondarvi le palle menzionando i cinquecentomila gruppi rock psichedelico del passato(ovviamente tutti presi e reinterpretati sotto una veste attuale e consapevole, portando all’estremo tutti gli elementi stonanti della musica del passato), più utile invece è dirvi che per esempio, rispetto agli Earth di “Pentastar” i DM sono meno concettuali e molto più pesanti, pur riproponendo la loro identica concezione della musica, intesa come un modo per straniare e far sognare; rispetto ai Los Natas invece sono meno ritmocratici, tutti gli strumenti passano in secondo piano innanzi al potere delle chitarre; rispetto ai 35007 i brani hanno una pur accennata forma, e poi sono cantati, anche se la voce è immersa in veicoli musicali enormi, nei quali infatti essa prova ad adattarsi, deformandosi e riempiendo, con la sua estenuante lentezza nello scandire ogni parola, tutto lo spazio a sua disposizione, anche se la sensazione è sempre quella di un cantato abbozzato, che lascia sempre spazio ai musicisti per far costruire e decostruire pezzi complessi e affascinanti, dove la lentezza è eretta a valore fondamentale, e in quella lentezza perdiamo il filo del brano, che si evolve, si disintegra in acide detonazioni e mille viaggi concentrati in un solo pezzo, tra suggestioni e suoni sconvolgenti, talvolta onirici, come avviene nella stupenda suite The White Worm, che è la sintesi della poetica che caratterizza l’intero disco, nonché uno dei capolavori di tutto il filone psicostoner, dove la tecnica non è tale ma è semplicemente ARTE. In versione acustica la band sa dare grandi emozioni, come avviene nella bellissima The One I Don’t Know, dove i Beatles si bagnano nel mare desert e country. Tutto ha un aspetto sereno e rassicurante, lo splendore dell’album sta proprio nel suo calore, che supera anche l’atmosfera nebulosa degli esordi della band; questo è infatti il punto d’arrivo per i DM, dove non manca assolutamente nulla, nemmeno il brano heavy Everything Is Going On, che propone un sound grezzo e diretto, tutto una tirata, pronto a esplodere tra le mani: hard rock, garage e acidità varie ed eventuali, tutte concentrate in un solo pezzo.Vibrazioni e wah wah in abbondanza aprono caoticamente One And Old, che è l’ultima e nebulosissima suite del lotto, un campione di suono che proviene da chissà quale dimensione o chissà da quale pianeta, o da chissà quale pazzo svitato che ha deciso di fare una musica così psicotropa per farci immedesimare nella sua malattia mentale e farci calare nei suoi schifosissimi panni, tanto da fare il verso ai primi Mogwai, specialmente nel finale, una coda lunghissima in cui le chitarre si accarezzano, si stuzzicano, con arpeggi incantevoli e malati.

Ascoltare l’album in stato di dormi/veglia può darvi effetti imprevedibili, e forse è solo quello il modo per coglierne la straordinaria portata, ossia quelle sensazioni che nessuna parola potrà mai descrivere. Consiglio l’ascolto anche a chi segue ed apprezza i vari psico-derivati e doom-derivati come i già citati e famosissimi Mogwai.
John

giovedì 9 ottobre 2008

Dead Meadow - Dead Meadow (2000)




Anno: 2000

Etichetta: Tolotta

Tracklist:
Sleepy Silver Door
Indian Bones
Dragonfly
Lady
Greensky Greenlake
Beyond the Fields We Know
At the Edge of the Wood
Rocky Mountain High


Prendiamo tre amici, un Jason Simon qualsiasi, uno Steve Kille e uno Stephen McCarty, ma potrebbero anche essere altri, però poniamo il caso che siano questi, il primo canta e suona la chitarra, gli altri due sono un bassista e un batterista. Mettiamo che vogliano fare una grande avventura. Che ne sai, magari un viaggio, o magari non andranno da nessuna parte, ma intanto una mattina, anzi una notte di una decina di anni fa, si mettono tutti in macchina e partono. C'è chi ha mal d'auto e si mette dietro, ogni tanto si sente male e vomita, quindi si procede molto lentamente, così lenti che l'auto singhiozza. Come viaggiare sulle uova, ma questo se vogliamo è ancora più snervante, perchè l'auto scoppietta e trema, quindi c'è una sorta di massaggio costante all'apparato digerente. Intanto sulla statale si crea un ingorgo, perchè i tre creano un tappo, ma a loro interessa veramente poco, tutto il mondo può anche crollare, ma per loro è iniziato un viaggio, tutto attorno sprofonda nella nevrosi, ma sono in una dimensione a parte, in una bolla di sapone, o di schiuma, di una delle troppe birre che ancora devono essere smaltite dal bassista. Vomita ancora, sta male, l'aria diventa malsana, ma poco importa, tutto fa brodo, nessuno ha detto che doveva essere una scampagnata: è un viaggio al buio, nel cuore della notte, appena svegli dopo qualche ora di riposo su un divano sfondato da un festino rock di cui si sente ancora l'eco, ma solo l'eco, perchè tutto è in slow motion, tutto è avvolto da una patina nebbiosa di rutti, puzza di sudore e di benzina, quella che l'auto perde lasciando una interessante scia dietro di se, un viaggio su una strada pericolosa, e su un'auto diciamo pure vintage (tanto per non dire che è vecchia di trenta quarant'anni), e quell'aria vomitevole rende l'atmosfera ancora più verde e viscida. E poi infondo, cavolo, Jason ha con se la musica, avrà portato ancora i 'Dead, Ummagumma, qualche bootleg, magari dei Cream. La musica allieta il viaggio, si sa. Meglio se qualcosa di pesante, ma pesante proprio, qualcosa di palastico e mutevole, i bootleg si prestano a questo, perchè li la musica è come se scivolasse in stage diving, sulle facce delle persone che sono al concerto, come un'onda che si spalma sulla riva, la musica che piace a questi tre amici, e la musica che li ricopre, li inebria, la musica che è il senso del loro viaggio, o forse è che il senso della loro musica è il viaggio? E comunque al volante c'è il chitarrista, Jason, sempre lui, che non da mai il cambio agli altri, perchè tiene in mano la situazione e sulla strada fa un casino tale che nemmeno la sua voce si sente. Allora magari dice qualcosa ma la comunicazione è l'ultimo dei pensieri dei tre, quello che conta è il viaggio. Poi inizia a colare vomito pure dai bocchettoni dell'aria, e dal parabrezza, che riflette l'immagine del conducente, come fosse uno specchio, si vede che la testa di Jason si apre e partorisce un Sabba nero, che sguscia e inizia a impadronirsi della realtà, il grande padrone della realtà, regista di un incubo, e così il cruscotto prende fuoco, come una chitarra di Hendrix, Jason inorridito e spaventato perde il controllo del mezzo, che inizia a fare un casino pazzesco, pur sempre andando a passo di lombrico, ma avvolti tra le fiamme e traboccanti vomito dai finestrini, finchè l'auto si ferma e viene travolta da un tir, come fosse un pacchetto di sigarette sotto una scarpa. L'auto esplode. Tutti morti. Oh, no dai, è solo un sogno, un brutto sogno del cazzo. "Dobbiamo ancora partire" pensa Jason rifrancato, quando si alza dal letto, allora invece di pensare di smetterla con quella robaccia, gli viene in mente di registrare magari tutto su disco, e a mezzora dopo la partenza, si ferma in una piazzola di sosta, tanto per pisciare e improvvisare qualcosina con la chitarra, tanto per rilassarsi, un po a la Neil Young (unplugged sul ciglio della strada, sarebbe anche un bel titolo), tanto il tempo di azionare il fornellino elettrico e farsi un caffè prima di riprendere il viaggio. Il fumo del caffè però è copioso, è nero, ma pure la notte è nera, e dietro di lui c'è una figura, nera pure questa, è un uomo, un uomo nudo, e il tempo di girarsi per rendersene conto, è già inculato. Maledetta caffeina, maledetto fornellino, si era addormentato sul maledetto ciglio della strada, si sveglia perchè una puttana con lo sguardo fisso gli stava già calpestando lo stradario. Ma tanto che importa, non c'era una meta, e soprattutto, il caffè, quando sei assuefatto, invece di tenerti sveglio ti tranquillizza, persino in una lunga e fredda notte come questa, in cui non puoi incontrare per strada nemmeno una figura amica, al massimo trovi il ministro per le pari opportunità.Inizia così il viaggio dei Dead Meadow.
John

mercoledì 8 ottobre 2008

Hawkwind - Doremi Fasol Latido (1972)




Anno: 1972

Tracklist:
1. Brainstorm
2. Space Is Deep
3. One Change
4. Lord Of Light
5. Down Through The Night
6. Time We Left This World Today
7. The Watcher

più bonus track nella versione rimasterizzata nel 1996:
8. Urban Guerilla

9. Brainbox Pollution
10. Lord Of Light (Single Version Edit)
11. Ejection


Capolavoro(?)
Il terzo capitolo della carriera degli Hawkwind è solitamente considerato il momento migliore di tutta la loro carriera, il loro capolavoro e il capolavoro space per eccellenza.Secondo me non è nessuna delle 2 cose, è solo un album diverso dagli altri, che ha delle sue particolarità: alcuni notevoli pregi, ed alcuni difetti. Innanzitutto non inventa niente, perchè nessuna delle cose che sentiamo nell'album è davvero inedita nella carriera della band, si tratta di idee già sviluppate ed ora raccolte e riespresse, in certi punti meglio, e in altri punti peggio... in fin dei conti non c'è un salto stilistico, ma solo un suono più nitido, più curato e professionale; a livello compositivo in quest'album si registra la nascita di una vera e propria forma-canzone-space, che nei dischi precedenti mancava, era solo abbozzata, nel magmatico e nebuloso pasticcio dell'album nella sua interezza. Ogni pezzo brilla di luce propria, solo che alcuni sono molto brillanti, altri (metà album) non sono proprio all'altezza. La verità è che gli Hawkwind si esaltavano nei singoli, e spesso infatti lanciavano dei piccoli capolavori fuori dai loro album, segno di una creatività costante ma non omogenea, ostacolata dai cambi di line up troppo frequenti. Reggere un album intero sempre alla stessa intensità è difficile in queste condizioni, e la tentazione del riempitivo è fortissima. perchè non far uscire 3 o 4 singoloni al posto di quest'album? boh. alla fine comunque gli Hawkwind hanno fatto bene, e infatti penso di essere il solo a non apprezzare in blocco l'intero disco, che resta comunque molto bello.


Formazione
Dave Brock (voce, chitarre) firmatario di 4 brani su 7; Nik Turner (fiati) firmatario della mitica hit "Brainstorm"; Simon King (batteria); Dik Mik (elettronica); Del Dettmar (sintetizzatore), autore del trascurabilissimo intermezzo di un minuto scarso intitolato "One Change"; e Lemmy Kilmister (basso), autore della ballata finale "The Watcher", un altro pezzo quantomeno trascurabile. In fase compositiva i nuovi membri non danno un apporto degno di nota quindi, anzi annacquano il lavoro rendendolo poco omogeneo, con pezzi non ispirati. Lemmy comunque è un bassista della madonna, e qua lascia fortemente il suo segno, impreziosendo "Space is Deep" e "Lord Of Light", dove da il meglio si se. Il nuovo batterista lascia un suono più duro e potente, vicino all'hard rock e preludendo il metal dei futuri motorhead di Lemmy, dando una carica che in "In Search Of Space" spesso non c'era, a dispetto però dell'atmosfera, che è l'elemento principle del sound hawkwindiano.


Le Canzoni
eh già, perchè ora possiamo davvero parlare di canzoni, vere e proprie canzoni space rock, anche se è difficile crederci, ascoltando dei bagni di sudore come Brainstorm, che è opera del demonio, un brano così drogato e stravolto che basterebbe anche un solo minuto dei suoi 12 a far perdere la sua fede alla ciellina più talebana di tutte: questo solo pezzo vale quanto 3 o 4 dei moderni album space, perchè qua dentro c'è un abisso di follia e rincoglionimento psichedelico che non si può immaginare se prima non si schiaccia il tasto "play". Così pesanti gli Hawkwind non lo erano mai stati, così martellanti, così ridondanti, ripetitivi, prolissi e allucinati. Una pioggia acida di asteroidi dentro la testa, un vero e proprio brainstorming. Brock è artefice della parte di chitarra più esaltante della storia, almeno, per quanto mi riguarda, così squilibrato da provocare giramenti di testa all'ascoltatore. Epico.Temi: volontà di superamento del limite umano, la metafora del decollo è ricorrente come al solito, ma qua tutto è molto più esplicito rispetto ai brani precedenti, anche la complessità lirica è aumentata dai tempi in cui c'erano 4 frasi ripetute all'infinito.l'immagine dell'androide serve ancora una volta ad indicare l'uomo omologato e reificato che è l'esatto opposto dell'intento prometeico hawkwindiano.Space is Deep non è il primo "esperimento" di abbinamento acustico-elettronico e folk-sintetico, ma probabilmente è quello riuscito meglio, nelle sue 2 metà, la prima incentrata su voce / chitarra / effetti elettronici, la seconda consistente in una dispersione psichedelica farcita di effetti e dominata dal pianoforte elettrico, e da un basso che emana scariche elettriche a pulsioni regolari che annullano celebralmente l'ascoltatore, travolgendolo nella stupenda jam, che poi sfocia una coda di chitarra acustica molto suggestiva che riprende la prima parte del pezzo.Lord Of Light riprende il rock pesante e massiccio di "Brainstorm", bordate fragorosissime di chitarra, suonata in modo che solo oggi possiamo capire quanto è stata seminale per lo stoner, bello il duetto tra flauto e il basso tanto potente da provocare sussulti e conati di vomito per le mazzate. Dopo la trascurabile e ripetitiva introduzione cantata (e neanche al meglio di quanto sa fare Brock) si apre un crepaccio direttamente sotto i piedi di chi ascolta, su mondi terrificanti ricoperti da una atmosfera putrida e appiccicosa.Sia "Space Is Deep" sia "Lord Of Light" sono odi allo spazio, ampi affreschi descrittivi alternati a momenti di struggente lirismo direi quasi "eroico", di chi sente la propria musica come una missione, anche se i testi tormentati degli episodi precedenti sembrano ormai lontani, in favore di una descrizione che a volte sembra più un esercizio di stile (stile ormai ben consolidato). Down Through The Night invece è leggerina, sia nei contenuti, sia nella forma... 3 minuti di country rock allucinato dal "vento" che sembra soffiare durante tutto il brano, uno dei soliti trucchetti degli Hawkwind,trucchetto abusato.Time We Left This World Today è un altro pezzo forte, un lamento blues interstellare, nostalgia canaglia che si fa musica, tra momenti di classico e nero chitarrismo dai toni incandescenti, e momenti di asprezza quasi heavy metal, tutto colto da un'orgia jammosa da paura, un tripudio di suoni, colori, rumori, tutto muta e tutto scorre nello spazio infinito, nel quale questo pezzo sembra estendersi senza limite alcuno. Il testo del brano sembra citare 1984 di Orwell "They watch you as you walk the street / Cast sly glances at who you meet / Brain police are not far behind / Trying to make you lose your minds".La malinconica The Watcher chiude l'album, con solo chitarra acustica e voce, una specie di ritorno alla base, la band torna coi piedi per terra, come di consueto, nel finale degli album.
John

Hawkwind - In Search Of Space (1971)




Anno: 1971


Etichetta: United Artists


Tracklist:
1. You Shouldn't Do That
2. You Know You're Only Dreaming
3. Master Of The Universe
4. We Took The Wrong Step Years Ago
5. Adjust Me
6. Children Of The Sun

più, nella ristampa, ci sono bonus track :
7. Seven By Seven (Original Single Version)
8. Silver Machine (Original Single Version)
9. Born To Go (Live Single Version Edit)


Nell'intervento adiacente trovate una introduzione agli Hawkwind, quindi inutile ripetermi e ribadire le solite cose sullo space rock, perchè le trovate in quella recenzione, ma anche su qualsiasi webzine che parli anche si sfuggita degli Hawkwind; cosa meno facile da trovare è qualcuno che vi dica quale differenza c'è tra un album e l'altro, in pratica quale sarebbe la peculiarità di "In Search Of Space". Vado direttamente al nocciolo della questione.Innanzitutto la formazione è rimaneggiata, con uno dei tanti cambi di line up che si susseguiranno nella carriera della band: Dave Brock resta il compositore principale e cervello della band, nonchè cantante e chitarrista, affiancato al sax e altri strumenti a fiato dal grandissimo Nik Turner, e dal batterista Terry Ollis; l'elettronica è curata da Del Dettmar che si aggiunge a Dik Mik, mentre al basso arriva Dave Anderson. Come si nota già dalla formazione, risulta esserci una chitarra in meno ed elettronica raddoppiata, ecco già la prima grossa differenza con l'esordio: il suono è meno chitarristico, e molto più sprezzantemente space, i synth sono più pesanti; inoltre il basso è meno invasivo, meno funkeggiante. L'impressione che si ha è che la band abbia preso coscienza della sua vera portata innovativa e della sua specificità; ecco quindi l'album dell'emancipazione, ed ecco anche perchè non c'è più un brano "normale" ad aprire il disco che incomincia ex abrupto con una suite di 15 minuti di spazio profondissimo. L'album è molto più cantato rispetto all'esordio; anche questo è un segno di consapevolezza, e del fatto che non c'è più demarcazione tra canzoni (cantate) e fughe spaziali (interamente strumentali), ma c'è un solo mix di musica e parole che sfuggono all'attrazione gravitazionale terrestre, per perdersi inesorabilmente in cerca di spazio, dilatandosi senza forma e senza regole d'alcun tipo. Da ciò deriva un altro elemento fondamentale che distingue questo dal primo album: i brani sono tutti più dilatati, meno compatti, quasi...gassosi. "Lisergico" è la parola più appropriata per discriminare questi Hawkwind da quelli dell'esordio. Poi ne aggiungerei un'altra, che è Jazz ... eh già, perchè questo secondo album sgretola il rock stravolto del precedente, e si butta nell'avanguardia, e come sempre nella storia della musica, inizia a fare i conti con il jazz, che troviamo anche esplicitamente richiamato in diversi momenti, come vedremo. Allora immaginate la versione più psichedelica e rallentata del rock psichedelico inacidito al massimo, diluito con una base jazz e di musica d'atmosfera, più vicina alle soundtrack di film western che all'hard rock che, per come la vedo io, in quest'album risulta in un certo senso accantonato, e ne sono prova chiarissima tutte le parti di basso e batteria che non assomigliano affatto a qualsiasi cosa abbia a che fare con l' "hard" ne, in certi punti, con il rock.You Shouldn't Do That è il capolavoro assoluto degli Hawkwind, un quarto d'ora di jam, strumenti in delirio, musicisti che asaltano tutta la loro voglia di stupire in un crescendo di effetti speciali e virtuosismi che trascende qualsiasi aspettativa che si possa avere dalla musica, per trasferirsi sul piano del sogno e dell'esperienza mistica, perchè non c'è altro modo per descrivere questo pezzo. Inizia con un duetto elettronica-fiati, in cui si simula la messa in orbita di una macchina spaziale, infatti dopo un minuto e mezzo dall'inizio la macchina si stacca dal suolo, e si inserisce un giro di basso da brividi, poi di prepotenza la batteria, nella sua parte più pesante di tutto il disco, un tripudio di tempi che variano e si invertono in giochi prospettici divertentissimi, sui quali poi si adagia un assolo fantastico di sassofono, che poi duetta col rullante e con una chitarra liquefatta. stop. prima del quarto minuto tutto riprende in modo ancora più concitato, si rincara la dose di elettronica, il ritmo si fa nervosissimo, verso il quinto minuto abbiamo l'ingresso della voce, poi a ruota di nuovo basso e infine ancora sax solista impreziosito da inserti sintetici. Prima del settimo minuto tutto si sgretola nel vuoto e riprende sottoforma di jazz spaziale, in una baraonda di rumori d'ogni tipo ad un passo dalla cacofonia. dispersione al massimo. Prima del nono minuto riprende il motivo principale del brano, in seguito si aprono diversi sipari inaspettati e imprevedibili minuto per minuto, come scenette separate e distinte in una stessa frammentatissima cornice. Nuovo passaggio cantato, poi il gran finale jazzato con la reiterazione di tutti i trucchetti visti prima, sempre più schizzofrenici, smepre più anarchici, sempre più spaziali-rumoristici, una carovana che mi fa restare ogni volta che lo ascolto 5 minuti col fiato sospeso.I temi del brano sono: il limite dell'essere umano e delle sue possibilità ontologiche (quindi anche legate al suo divenire nello spazio e nel tempo) e cognitive; il rapporto con il "movimento" e con la gente ad esso estranea, sottolineando ancora una volta un certo esprit de corp; importanti le figure dell'ascensione e la figura della gente che ti riporta in basso; la metafora dell'uomo che spicca il volo è un topos abusatissimo orma, ma che forse nel contesto space degli Hawkwind e di quest'uomo in cerca di spazio trova il suo uso più appropriato.In You Know You're Only Dreaming c'è prima un minuto e mezzo cantato, su un sottofondo di suoni sintetici che intendono riecheggiare abissi spaziali, poi inizia un trip psichedelico di 5 minuti, delicatissimo, in cui a far da padrona è la chitarra, in un oceano di effetti e lussureggianti assoli lentissimi e caldi, che scandiscono momenti di improvvisazione strumentale, tutti molto soft, vibrazioni positive e calme, in cui si inseriscono sfumature di fiati, tutto molto discreto e smussato dalle asprezze del brano precedente; un brando meditativo, che sfuma e si dissolve gradatamente come un bel sogno. Un brano nebuloso insomma, e non è di certo casuale che l'iconografia della band, nel booklet vuole spessissimo il richiamo a nebulose, talvolta persino fotografate e commentate, corredate da testi che coniugano il fantascientifico alle foglie di maria.Ricorrente nel breve testo è il tema del sogno, e l'ossessione per il mistero e per i mondi sconosciuti, quella voglia di esotico....anzi, di alieno, che è una costante della petica dell'intera produzione della band; in questo senso è chiaro anche il significato di quel titolo "in cerca di spazio": la vita come costante tentativo di superamento della condizione umana terrena, per approdare a mondi misteriosi e nascosti; spontaneo è il collegamento col misticismo di matrice spiritualistica orientale, ma anche più semplicemente ci si collega a una pura e semplice curiosità, un conatus che spinge l'uomo a stare al mondo e scoprire...per scoprisri, in costante ricerca. Ma il sogno è anche dolore, è anche angoscia, perchè dietro quella porta può esserci di tutto, ed ecco l'immagine delle anime che gridano nella notte, l'immagine del caos che si sostituisce al sogno inteso in modo sereno, come in principio. Tutto questo è segno di una ricerca che non è mai indolore, di un cammino che può comportare dei rischi, sofferenza, imprevisti, ma che val sempre la pena di essere percorso.Master Of The Universe ---> anche questo brano è cantato, la voce in quest'album è generalmente più "aliena" ed effettata, lontana anni luce dalla serenità dell'esordio e da quell'atmosfera hippy un po campagnola. Il brano è elettrico e lisergico da paura, una distesa di suoni portati all'estremo, ritmo regolare e grossomodo ripetitivo, per un brano che gioca appunto su questo gioco d'ipnosi, impreziosito nella parte centrale da un lungo lavoro solistico di sax del sempre più protagonista Turner .Particolarmente interessante il testo di questo pezzo: "I am the centre of this universe / The wind of time is blowing through me / And it's all moving relative to me" fin qua sembra un'esplosione di volontà di potenza quasi..."eccentrica", derivata magari dall'immedesimarsi in una condizione di alterazione sensoriale autoindotta con le droghe, poi in seguito dice "It's all a figment of my mind / In a world that I've designed", quindi è chiaro che si tratta di un paradis artificiel, o forse no? tutto costruito dalla mente del "viaggiatore"...? è tutto dentro? è davvero tutto costruito nella mia testa? e torna il tema dell'illusione (ricordate quanto detto per "Mirror Of Illusion" nel primo album?), ma anche il tema della follia quando alla fine della strofa dice "Has the world gone mad or is it me?", fino allo scoramento finale "If you call this living I must be blind".We Took The Wrong Step Years Ago ---> semplicemente il pezzo più emozionante su cui Brock abbia mai messo le sue mani, la sua voce e la sua chitarra acustica, una ballata folk tristissima, con quel suono cristallino e quella voce passionale ma quasi alienata, persa nel vuoto. A fare da sottofondo a chitarra e voce è un intreccio di suoni freddi, elettronici, una specie di impronta di un universo che respira, vive attorno a noi, o che magari abbiamo costruito proprio noi attorno a noi stessi, un universo sintetico, percepito come artificiale e sinistro, quasi desolante, nel profondo sconforto di questo brano.Adjust Me ---> dopo 2 minuti di cyberdelirio consistente in una declamazione-confessione di una umanità ridotta a una massa di androidi impazziti, nessuno dei quali può guardare in faccia alla realtà, inizia il trip più perverso dell'album, una dissolvenza musicale che procede di pari passo con la dissolvenza mentale-spirituale, che poi è simboleggiata dall'androide che va in corto circuito e si spegne.Children Of The sun Stilisticamente nulla di nuovo, solo un'altra grande prova di gusto e semplice melodia, un brano sereno e fiero suonato con sola chitarra acustica e armonica. un breve epilogo che è la fine dell'incubo, la fine del viaggio, il risveglio, l'uomo ha trovato il senso del proprio destino, e come si può vedere nel testo integrale di sotto, è quasi profetico, molto toccante.

The golden age of the future comes
That which was dreamed of in the past
Where freedom reigns on minds of peace
Minds rich in wisdom to the last
We are the children of the sun and this is our inheritance
No longer chaos and confusion
But love and laughter
Song and dance
John

Hawkwind, Hawkwind (1970)




Anno: 1970


Etichetta: United Artists

Tracklist:
1. Hurry On Sundown
2. The Reason Is?
3. Be Yourself
4. Paranoia (Part 1)
5. Paranoia (Part 2)
6. Seeing It As You Really Are
7. Mirror Of Illusion

più bonus tracks nell'edizione rimasterizzata del 1996
8. Bring It On Home
9. Hurry On Sundown
10. Kiss Of The Velvet Whip
11. Cymbaline


Non si contano le band ispirate dagli Hawkwind, potremmo stare qua a parlare di tutto lo space rock, che vede negli Hawkwind il suo punto d'inizio, dello stoner rock, che si abbevera a piene mani dalla sorgente hawkwindiana, ma anche di una serie di altre band dagli anni 70 ad oggi, persino in ambito pop come gli Spiritualized, My Bloody Valentine e piu o meno tutto il post rock che va dal 1996 in poi, e tutti i suoi derivati. D'altra parte anche gli stessi Hawkwind non sono che il risultato finale di tutto quel grande movimento rock psichedelico della metà dei 60 in poi, come infondo risultato finale fu anche il kraut rock, ma per quanto mi riguarda, quello penso che possa considerarsi come un ponte per una musica altra dal rock, mentre lo space resta assolutamente inserito nella compagine rock tradizionale, fantascientifico e futuristico ma dannatamente legato all' esperienza hippy anni 60, perchè è proprio in quel mondo che i membri della band si conoscono e iniziano a suonare insieme, in una comune a Notting Hill Gate, quartiere popolato di freak; il loro linguaggio musicale non era "di rottura", era solo l' estrema conseguenza delle allucinazioni sperimentate in quell'ambiente, che presto erigerà gli Hawkwind a guide spirituali verso altri mondi, con le loro esibizioni metamusicali che univano scenografia, luci, danza e musica in modo tale da ottenere un rituale che va ben oltre il concerto, e si spinge nel territorio dell'ascesi mistica, tra droghe a volontà e suoni che simulano il viaggio interplanetario.Nell'esordio degli Hawkwind, la formazione era la seguente: Dave Brock (voce, armonica, percussioni e chitarre); John A. Harrison (basso); Huw Lloyd (chitarra solista); Terry Ollis (batteria); Nik Turner (sax, voce e percussioni); Dik Mik (elettronica).L'intento dichiarato della band era far elevare le menti, con una esperienza audio-video, attraverso l'uso dell'elettronica e dei fiati per creare atmosfere che richiamassero la fantascienza, suoni e rumori che sembrano riecheggiare il vento interstellare o l'atmosfera densissima di un pianeta sconosciuto o ancora il rumore di una macchina spaziale che lascia la terra e si immerge nel suo viaggio. è qua che emerge la curiosità e l'amore per le nuove esperienze che unisce la cultura freak alla voglia di esotico e all'interesse scientifico/astronomico tipico di quegli anni.Le suggestioni elettroniche (che comunque in quest'album restano solo sullo sfondo) si intrecciano in una palude di suoni che procedono lentissimi e leggeri, pronti a volare via, come foglie al vento. La matrice è quella acid rock; le conseguenze invece sono imprevedibili, si parte da un pezzo convenzionale intitolato Hurry On Sundown, un semplice folk rock blueseggiante, dove fanno da protagonisti una splendida chitarra a 12 corde e l'armonica, all'astrazione totale di Paranoia. Il brano d'apertura riporta le classiche tematiche hippy, l'attesa di un nuovo giorno, l'angoscia della guerra, e soprattutto un senso di solidarietà che viene fuori nella conclusione del brano, una specie di "epopea freak", una specie di Odissea moderna, il cui prologo è appunto Hurry On Sundown, ed il viaggio che si intraprende non è un'avventura nei mari, ma un'avventura nello spazio, allegoria di un trip nella propria mente, ancora più solitario e personale dell'introspezione dell' "Ulisse" di Joyce, ma vissuto insieme da un insieme di gente legata da un "sentire" comune; quindi si tratta di una introspezione di gruppo, celebrale eppure esteriorizzata, a-teistica eppure profondamente religiosa. esiste una versione alternativa del brano, che potete trovare nell'edizione rimasterizzata dell'album, come bonus track; diversamente dall'originale è piena di eco, effetti e aperture lisergiche, sax e un'altra chitarra (che presenta un assolo molto più in linea con quelli presenti nel resto dell'album) al posto dell'armonica.The Reason Is ---> il viaggio è incominciato, niente parole, solo suoni, niente musica, niente melodia, pura e semplice simulazione rumoristica del vento che solca la crosta di un pianeta, una piccola orchestra suona una sinfonia da viaggio mentale, suoni senza ne capo ne coda in 3 minuti saturi di strumenti e trovate geniali per suggestionare l'ascoltatore, su tutto ciò che impressiona è il sapiente uso dei piatti da parte di Ollis, batterista raffinatissimo che impara a simulare i rimori del mondo e delle cose della natura (questa o chissà quale natura aliena). 3 minuti e mezzo che sintetizzano e oppongono di contrasto all'incipit il sound stravolto degli Hawkwind.Be Yourself ---> "Be yourself, see yourself / I can see others like me / Be yourself, see yourself / Try and find peace of mind" poche parole recitate, scandite come farebbe un predicatore più che un cantante (e qua ci si ricollega a quella concezione mistica-religiosa della musica), che esprimono ancora una volta (come si divceva in apertura) un senso di appartenenza ad una classe di persone tutte accomunate da questo grande viaggio, nonchè basate su di una stessa weltenshaung. Dopo poco si entra nel vivo del brano, e non sentiremo più nessuna voce, solo un ritmo primitivo disegnato da batteria e basso, grazie al contributo creativo di Harrison , grandioso bassista avente background jazz e appassionato di musica ballabile, ed è proprio questo intento che viene fuori in questo pezzo: un ritmo diabolico, un basso penetrante e gommoso, ipnotico, elettrizzato da dinamismi spaventosi; in un gioco cattivissimo con la batteria (tra il selvaggio e il tribale) anche qua assurdamente scomposta in decori tutt'altro che usuali in ambito hard rock. questa è la parte ritmica più ballabile che io abbia mai sentito in vita mia, musica fatta per far muovere il culo, ritmo palpabile e materico, durissimo, in costante contrasto con il fluttuare aeriforme dei solismi di sax(prima), di chitarra(dopo) e di percussioni (nel finale), momenti emozionanti, estasi sonora, stravolgimento interiore, siamo nel vivo del viaggio ormai e tutto ciò che si sente consiste nel rumore del motore che esplode e sputa fiamme in questi 8 minuti. meravigliosa. totale.Paranoia ---> il bad trip inizia, le allucinazioni iniziano a fare brutti scherzi, qualcosa nell'ascensione siderale non va per il verso giusto, l'angoscia penetra dentro di noi, un altro brano strumentale, non c'è niente da cantare e non c'è niente da ballare, dimenticate le assurde e lussureggianti esplosioni soniche dei pezzi precedenti, resta uno strascico glaciale, pieno di...vuoto, di senso del vuoto. Un disturbo ossessivo trasformato in musica, paranoia...appunto. Strumento principe del brano è il sintetizzatore di Dik Mik che, in coppia col sax, elabora atmosfere inquietanti e desolate, in un ciclone di singhiozzi elettronici ripetitivi che estenuano l'ascoltatore, in poco più di 5 minuti. siamo dalle parti dei Kraftwerk del primo album e dei Pink Floyd, che sono la fonte di ispirazione principale per la band (infatti proprio nel remaster troviamo come bonus track la cover di "Cymbaline").Seeing It As You Really Are ---> il brano prende forma dalle ultime paranoiche evoluzioni del pezzo precedente, e infatti ne è l'estremizzazione, nonchè l'apoteosi dell'album intero, che inizia come un pezzo dei futuri Neu! (che esordiranno nel 1973) tra eco, interferenze, ed il suono del vento, e si evolve in una sfilata eterogenea e anarchica di suoni tra il tecnologico, il sinfonico e la jam session impazzita, in 11 minuti di pura pazzia, tra i quali si sente il fluttuare di corpi in assenza di gravità, sospiri e cuori di chissà che genere di organismi che pulsano e sobbalzano. dal terzo minuto esplode un assolo spiazzante di Huw Lloyd, liquefatto su una tavola di elettronica in grandi quantità, sullo sfondo si agitano percussioni marziali e nervose, e dal sesto minuto tutto ricomincia a confondersi in un'altra serie di suoni alieni, e dopo altri 2 minuti di noise elettronico ante litteram ricomincia l'aggressione ritmica di Harrison ed Ollis, per poi finire in una coda free jazz con parte solista di sax di Turner.Mirror Of Illusion è il secondo pezzo interamente cantato dell'album, un epilogo perfetto, una sintesi tra il blues del prologo e l'acidità dei brani che compongono l'album, il risultato è un pezzo a la Grateful Dead, un'immersione psichedelica in una pozza di petrolio blues che si infiamma in scariche di percussioni ed in lunghi assoli di chitarra, tutto dilatato da interferenze elettroniche e intermezzi strumentali sorprendenti, tra bridge e sottobridge che creano una fitta trama di dispersioni nelle quali è difficilissimo ritrovarsi, un crescendo di emozioni e palpitazioni che conduce fino alla fine di questi 7 indimenticabili minuti, sempre sospesi tra la "canzone" e l'improvvisazione, la supernova è sempre dietro l'angolo. Il tema del brano è la finzione, e il contrasto tra realtà e rappresentazione, notevole l'immagine della "maschera"; con riferimenti alla percezione alla comunicabilità dei sentimenti ma soprattutto alla reale consistenza del "mondo dei sogni", ed anche in questo senso ci si ricollega al tema della finzione, dell'illusione appunto. Tutto si chiude con delle immagini inquietanti, che fanno riflettere e lasciano un velo di tristezza e uno spunto di riflessione: lo specchio dell'illusione, l'inganno; il contrasto tra le prospettive; l'uomo che vive dentro una scatola (mi ricorda qualcosa... ); il ritrovamento delle porte della percezione (anche questo mi ricorda un paio di cose... ) ma... l'illusione è sempre dietro l'angolo.

...The mirror of illusion reflects the smile,
The world from your back door seems so wide,
The house, so tiny it is from inside,
A box that you're still living in,
I cannot see for why
You think you've found perception's doors, they open to a lie.
John