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sabato 6 dicembre 2008

Glassjaw - Everything You Ever Wanted To Know About Silence (2000)


Anno: 2000

Etichetta: Roadrunner

Tracklist:
1. Pretty Lush – 2:59
2. Siberian Kiss – 3:50
3. When One Eight Becomes Two Zeros – 4:33
4. Ry Ry's Song – 3:32
5. Lovebites and Razorlines – 4:10
6. Hurting and Shoving (She Should Have Let Me Sleep) – 3:28
7. Majour – 4:00
8. Her Middle Name Was Boom – 4:16
9. Piano – 4:59
10. Babe – 1:43
11. Everything You Ever Wanted to Know About Silence – 5:36
12. Motel of the White Locust – 8:41
13. Losten (Hidden Track) - 3:10

Line-up:
Daryl Palumbo - voice
Justin Beck - guitar
Todd Weinstock - guitar
Manuel Carcero - bass
Sammy Siegler - drum

Che suono ha il silenzio? Lo stesso di un cuore che sanguina, inafferrabile e indefinibile, caldo e fluido, come questo disco.

L’anno è il 2000, siamo in piena era nu-metal, la Roadrunner da alle stampe il full lenght di esordio di quella che dovrebbe essere l’ennesima gallina dalle uova d’oro sfornata da Ross Robinson. Un altro prelibato spuntino da dare i pasto a ragazzini coi jeans larghi e il cappellino da baseball rosso indossato all’incontrario, pronti a far strabordare per l'ennesima volta le casse della casa discografica.
Le cose non andranno esattamente così.
I Glassjaw, pur godendo di un discreto fan base, non avranno lo stesso successo su scala planetaria di Korn e Linkin Park, nonostante tour di spalla ad acts del calibro di Deftones e Soulfly.
Poco male.
A qualche anno di distanza però sorge spontaneo chiedersi il perché ai tempi della sua pubblicazione questo disco non sbancò il botteghino. La risposta probabilmente è più semplice del previsto, e non riguarda scelte promozionali sbagliate o scarsa qualità, tutt’altro. La prima cosa che colpisce ascoltando Everything You Ever Wanted To Know About Silence è quanto risulti fresco e moderno, molto “avanti” rispetto alle produzioni di quel periodo, anche troppo. I Glassjaw infatti hanno il pregio di iscrivere il proprio nome nell’albo di quelle band che, a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, abbattono una volta per tutte le barriere esistenti nella musica estrema, spostando il campo della ricerca sonora un passo avanti.Niente (o pochissimo) nu metal quindi, ma tanto tanto materiale new nell’accezione letterale del termine.
Lungo lo snodarsi delle dodici tracce (più una bonus) assistiamo più volte alla destrutturazione e ricomposizione della materia sonora pesante in forme in continua evoluzione. Sammy Siegler (una vita passata dietro le pelli di leggende hardcore come Youth Of Today e CIV), con l’ausilio dell’ottimo bassista Manuel Carcero, si impegna in prima persona nella frammentazione sonica di cui i Glassjaw si fanno portabandiera, destreggiandosi con eguale perizia tra tempi pari e frammentati passaggi dispari. I due chitarristi, Justin Beck e Todd Weinstock, non sono da meno alternando con perizia deflagrazioni dissonanti che profumano di Botch e Converge ad aperture melodiche degne del miglior emo-core, riff pesanti come macigni della miglior scuola new metal a dialoghi d’alta classe fra i loro due strumenti. E poi c’è l’ingrediente in più, quello che permette ad un supporting cast in stato di grazia di fare il definitivo salto di qualità. Sto parlando del singer Daryl Palombo, autore di una prova a tratti terrificante. Si prenda un ragazzo poco più che ventenne all’alba del terzo millennio. Un passato da straight-edge hardcore militante in quel di New York. Un presente fatto di sofferenze: sentimentali, dettate da un rapporto amoroso andato in frantumi, e fisiche, causategli dal Morbo di Crohn che porta l’ammalato a subire dolori lancinanti all’intestino. E poi la cosa più importante: un talento vocale strabordante, affine a quello di Mike Patton. Shakerate il tutto e…les jeux sont fait disse una volta Sartre.
Ciò che ci si para davanti è un affresco sonoro allucinante. Pretty Lush e Siberian Kiss mettono le cose ben in chiaro sin dall’inizio: sezione ritmica terremotante, riff granitici e Daryl impegnato in una battaglia personale per combattere la sofferenza che lo divora dall’interno. Urla, riflessioni sibiliate a denti stretti, aperture in clean vocals, sembra di assistere ai deliri di un folle intrappolato nella camicia di forza. Ma forse è anche peggio quando la camicia di forza non è ruvido tessuto che ti costringe dal fuori, ma sofferenza pompata nelle vene da un cuore infranto, perfettamente incarnata dal titolo di una canzone, When One Eight Becomes Two Zeros, e dal suo momento di anarchia sonora conclusiva. Ry Ry’s Song, rielaborando in chiave più poppish l’operato dei Deftones di Around The Fur, manda a casa tutta la scena emo-core più modaiola con un buon lustro di anticipo. Lo stesso fanno gli squarci melodici incastrati nei momenti di schizofrenia incontrollata di Lovebites And Razorlines. Con Hunting And Shoving veniamo definitivamente proiettati nella materia hardcore del nuovo millennio: il suono nato un paio di decenni prima nell’ovest degli Stati Uniti, viene preso, rallentato, frantumato, appesantito e filtrato da un coltre di dissonanze. Qualcuno lo chiamerà post-hardcore. Majour prosegue sulla falsariga della canzone precedente, ma con un piglio sempre meno sostenuto che sfocia nella calma apparente di Her Middle Name Was Boom: fraseggi rarefatti, un ritornello che strizza l’occhio al Chino Moreno di White Pony e poi consueto momento di follia sonora finale. Piano è la dimostrazione di come il muro sonoro eretto dai Glassjaw si plasmi attorno all’onnipotenza vocale del suo singer: la band, perfettamente a suo agio in ogni suo componente, segue alla perfezione l’ugola di Daryl nei suoi saliscendi malinconici. Un’alternanza di stati d’animo e atmosfere che pervade in profondità tutto il disco. Capita così di ascoltare in sequenza Babe, in cui si può sentire come i Minor Threat avrebbero suonato se avessero esordito nel 2000, e l’alternanza di pieni e vuoti della title track, dove si raggiunge l’acme emozionale del disco. Daryl, ormai schiavo del suo malessere, non può fare altro che lasciarsi definitivamente andare e vomitare a pieni polmoni sull’ascoltatore tutto il peso di un’esistenza troppo dura da sopportare senza nessuno a fianco che ti ami e ti sostenga: I’m digging a hole, I’ll shout out the world, this is what it’s like to be alone. L’atmosfera è ormai satura di tensione e malinconia, le ossessioni del sesso, della violenza, dell’alienazione giovanile hanno ottenebrato definitivamente le menti e i cuori. Motel Of The White Locust, riprendendo il pathos della traccia precedente conclude l’album incorniciando in maniera quanto mai cruda un’opera di portata enorme sia dal punto di visto tecnico/musicale sia da quello emozionale. Un salto nel vuoto della sofferenza umana che si conclude con uno schianto sordo col cuore che inietta nel corpo l’ultimo getto di sangue avvelenato dal tradimento: pack your shit and leave, and take my memories of her with you. I don’t need to know...and take her fucking with you. Ripetuto fino alla nausea.
E finalmente eccolo, il suono grave del silenzio, pesante come un macigno su un paio di spalle troppo strette per sostenere tutto questo. Il fruscio del vento, toccanti note di pianoforte in sottofondo, la voce di Daryl flebile dal fondo buio del baratro: now I have you where I want you, I know that you are listening, this my chance to tell you everything –fuck you-. My chance to tell you I love you, but I’ve waited too long, now the record it’s over. Fuck you again.

Al centro della scena due giovani giacciono riversi in una pozza rosso scarlatto, in un angolo Eros sciacqua le sue mani ancora sporche di sangue. Le luci si abbassano e il sipario cala sulla trasposizione musicale della tragedia amorosa.

Alessandro Sacchi =KG=

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