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venerdì 14 novembre 2008

Neurosis - Given To The Rising


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Anno: 2007 Etichetta: Neurot Recordings

Line-up:
Scott Kelly - Guitars & Vocals
Steve Von Till - Guitars, Vocals, Filters & Textures
Dave Edwardson - Bass, Moog Synthesizer & Space
Noah Landis - Organ, Piano, Samples & Atmospheres
Jason Roeder - Drums
Josh Graham - Visual Media


Tracklist:
1. Given To The Rising
2. Fear And Sickness
3. To The Wind
4. At The End Of The Road
5. Shadow
6. Hidden Faces
7. Water Is Not Enough
8. Distil (watching The Swarm)
9. Nine
10. Origin


"I would rather be ashes than dust!
I would rather that my spark should burn out
in a brilliant blaze than it should be stifled by dry-rot.
I would rather be a superb meteor,
every atom of me in magnificent glow,
than a sleepy and permanent planet.
The function of man is to live, not to exist.
I shall not waste my days trying to prolong them.
I shall use my time."

Jack London

"Io vorrei essere cenere piuttosto che polvere!
Io vorrei che la mia scintilla bruciasse fuori
in una vampa brillante piuttosto che soffocasse fino a morire.
Io vorrei essere una superba meteora,
ogni atomo di me in un bagliore magnifico
piuttosto che un pianeta sonnolento e permanente.
La funzione di uomo è vivere, non esistere.
Io non sprecherò i miei giorni tentando di prolungarli.
Io userò il mio tempo."


Queste sono le prime parole che compaiono aprendo il booklet dell’album.
Interviste, parole postume, congetture…sono futili.
Perché cercare di dare un signficato a posteriori, quando sul momento, le parole dello scrittore statunitense, scelte dalla band, riassumevano e ancora riassumono il significato dell’album, il signficato di cosa sia la musica dei Neurosis.
Mai come prima la band di Oakland aveva marciato e meditato sulle parole che dessero voce e sentimento alla loro musica. Mai il loro concept è stato così difficile, nascosto, volutamente lontano dalla facilità di comprensione.
Given To The Rising.
Consegnato a chi si eleva?
Donato alla fonte?
Dedito al sorgere?
Sì, forse. Ma come sempre il significato che si cela dietro la band può signficare tutto, ma può anche signficare niente.
E allora atteniamoci come sempre alle tracce che la stessa band ci consegna, orme che vengono dal passato per comprendere il presente e gettare una luce nel futuro. Io stesso ho cercato di analizzare in maniera soggettiva tutto il mondo che i Neurosis si portavano dietro, ma cercando di creare collegamenti, con i loro ruoli, con le immagini che accompagnano i loro album, con le loro rare parole, arrivando a un pensiero intersoggettivamente controllabile, ovvero confutato e accettato.
Quindi in maniera semplice, la band ha portato avanti il discorso affrontato negli album precedenti, ovvero l’elevazione, la rinascita spirituale dell’individuo, la propria esistenza in continuo contrasto con la natura, forza superiore che dona e prende a seconda di quanto noi le doniamo o prendiamo. E solo coloro che sanno innalzare il proprio spirito fino ad arrivare in sintonia con essa, potranno godere della pace interiore, della libertà assoluta.
Perché spesso, non ce ne rendiamo conto, ma la Natura è viva, è parte fondamentale delle nostre vite, ma ormai si mette da parte, spinti come si è dal progresso, crescendo in spazi dove il verde è soppiantato dal freddo grigio, facendo in modo che quando ci si trova faccia a faccia davanti a Lei, non la si riconosce più, e automaticamente si distrugge. E Lei risponde, distruggendo.
Così l’artwork è severo, come la Natura, rappresentando una figura presa da Josh alla Piazza Dell’Eroe di Budapest, e circondata da altre figure che altro non sono che monumenti immortalati in altre piazze e luoghi dell’Europa Centro-Orientale (sotto suggerimento di Steve).
Ancora una volta il tutto ha preso forma lentamente, vista anche la poca predisposizione della band a esibirsi in sede live, scegliendo ormai poche ma fondamentali date per presentare ogni nuovo full-length, accrescendo la loro fama e l’alone di mistero che li circonda. Anche questa volta, ancora, è il maestro Steve Albini a supportare il combo di Oakland nel loro viaggio, ma non come figura di guida o maestro, poiché la strada già la conoscono, bensì come una figura di speranza, di supporto, con la quale creare una sintonia apposita per affrontare il viaggio. Agli Electrical Studio il clima è di pace e tranquillità, perfetto per operare in maniera serena e lenta, tanto che lo stesso Steve, come da lui detto, passa là gran parte delle sue giornate, producendo e suonando, con tutta la calma di questo mondo, ed è così che ad esempio si è dovuto attendere sette anni per sentire nuovamente i suoi Shellac, ma è così che lui trasmette il suo operato alle band che si fidano di lui, perfezionando e vivendo ogni album come fosse l’ultimo della carriera di una band.
E mai come stavolta il suono è frutto della collaborazione tra le due entità.
La band è cambiata dopo Through Silver In Blood, ha riposto i panni di psicanalista del cosmo e dell’uomo contemporaneamente, puntando il proprio pensiero unicamente su quest’ultimo e la sua vita, con tutto ciò che ne consegue. Per questo con la pubblicazione di Times Of Grace parlai di un suono divenuto terreno, sentito, materiale, corposo. E per questo motivo Given To The Rising tanto gli assomiglia. Fisico e d’impatto, ma dai suoni caldi, psichedelico, ma non come ASTNS o TEOES, ancora più minimale in questi frangenti, e tutto permeato dalla cupezza lirica e attitudinale che rese immortale un album come TSIB.
4/6 della band è insieme da ben sedici anni, mentre la line-up odierna si ha da otto, e proprio questa unione porta la band a lavorare unita, a partire da un riff di chitarra, da un effetto, per poi spogliarlo o vestirlo a seconda dei casi, e imbastirci sopra una canzone senza cedimento alcuno.
L’album si apre con la title-track, possente dove Scott ringhia violento contro l’inconsistenza degli uomini, ormai materialisti vuoti:

“The human plague in womb
Bring clouds of war
Let us rest
Our future breed is the last
In the conscience waits
Dreams of the new sun”


Un vuoto che è presto espresso dalla quiete acustica creata da Steve e Noah all’unisono, un lieve tappeto di tastiere dove arpeggi fumosi si adagiano lentamente, e la voce dello stesso Von Till conduce alla nuova rabbia, si dona alla rabbia, e i due vocalist-chitarristi si uniscono a creare un muro di suono possente e invalicabile, dove nascoste sibilano le tele di Landis, forse in quest’album meno presenti, ma non per questo non fondamentali per la struttura sonora tutta. Ed ecco che nuovamente ricompaiono le chitarre acustiche, ma stavolta sorelle di quella elettrica che compie un movimento spaziale, circolare e ipnotico, e si spegne così come era iniziato. Lì dove finisce Scott inizia Noah a ricamare nuovamente, questa volta in compagnia di Dave, che stende nere trame di basso e sintetizzatore, come a voler rimarcare il carattere cupo dell’album, e il dolore che di lì a poco prende voce con gli strumenti, è quello che il combo ci ha abituato a conoscere, ma con un filo di speranza, con un monito sussurrato di salvezza, sempre raggiungibile.
Fear And Sickness è tutta là nel titolo. Arpeggi distorti che incutono timori e che velenosi si aprono in un mantra dove a far da padrone e il drumming catatonico di Jason, mentre sopra ogni cosa si erige la voce di Steve, notevolmente mutata nel corso del tempo, ora più simile a quella di Scott quando recita pacata, ma più profonda e roca quando esplode la furia della canzone. I ritmi son ipnotici e sulfurei ma con gli echi lontani dei campionamenti di Landis sempre a tenerci ancorati alla realtà, e senza perderci ci addentriamo in un sabba severo e oscur, che impazzisce improvvisamente in danze frenetiche e veloci, guidate ancora da Jason in maniera precisa e nervosa, sopra le quali volano i riff di Scott e Steve, mentra pulsa in sottofondo il basso metallico di Dave.
E la paura ancora una volta, prevale su tutto:

“Inscribe your fears in the soil
The sea is foul
Like worms in your heart
Consume an age old
Of forgery and deceit
At the center we will find you
Falling prey to its lustre”


To The Wind è il finto baluardo di speranza che la band ci ha sempre donato nel corso dei suoi lavori, un inizio soffuso che pesca dalle nuove leve del post-rock ibridato al folk come Grails o Arab Strap (degli esordi), quindi atmosfere pacate e riflessive, gioiose…che ben presto finiscono, ma mancanti ancora del quid oscuro avvertito in precedenza, anzi i ritmi son veloci (per gli standard Neurosis, ma sta di fatto che era dai tempi di Souls At Zero che non viaggiavano in questa maniera) e con sfumature di colore alla fine di ogni riff, che segna la nuda pietra.
E tutto d’un tratto l’atmosfera cambia. Basta un piccolo intervento di Noah che il tutto si fa inquietante guidato dai sussurri di Steve che impazzito sbraita contro il microfono antecedendo il martirio che si protrae verso il vento, e lo porta lontano, come a farlo conoscere a tutti gli uomini, come avviso, come ricordo scolpito.
Ed ecco che come previsto, arriva il secondo inganno, ovvero il meandro prima sussurrato di At The End Of The Road, che riprende i veri tribali di Enemy Of The Sun e ruggisce nel finale, e poi quello noise di Shadow, dove sussurri intensi di versi antichi. E stranamente, i riferimenti all’argento si presentano nelle lyrics, “portandomi a loro, sto camminando verso l’eterno lago di luce”.
Gli echi elettronici si protraggono e dilatano si fanno metallicie rumoristi, si frantumano in mille pezzi, in un pezzo che ricorda le tentazioni drone di The Eye Of Every Storm, dove quella piana di chitarre imbavagliava la tempesta, e ora invece accarezza la nuda terra. Pochissimi riff, tirati allo spasmo, e solo nel finale prendono vita come le faccie degli spiriti di cui parla Steve, ormai principale voce della band, lasciando a Scott i fondamentali ricami vocali in secondo piano, creando un atmosfera satura e sibillina. Quasi un rito purificatore che ancora non può avvenire perché…Water Is Not Enough.
L’acqua come l’argento, per lavare via la memoria e il passato. I ritmi son quelli di Times Of Grace, e salta subito alla mente il paragone con la grandezza di Under The Surface; all’inferno vocale dei due leader si alternano i loro lamenti pulti e sofferenti, mentre i riff scorrono via solenni, puntellando di aghi il loro perscorso, sul loro finale, accennando una mefitica melodia, donando nuovamente spazio alla natura, al firmamento, un ritmo che non da riposo, che tiene svegli, giusto in tempo per vedere i guerrieri che ci portano al cielo:

“The volted antenna saints that will the fire
The hand is gnawed
The end is nigh
The warriors remain and they bring us to the sky
We'll burn in the sun
And we'll fall to the moon”


E ormai si è su, osservando lo sciame che brulica lontano di coloro che non ce la potranno fare. E in religioso silenzio si apre Distill (Watching The Swarm), che poi d’un tratto esplode con clangore metallico sopra ogni cosa, giocando con dissonanze e distorsioni che si inseguono e su fondono, creando un vortice sonoro di irresistibile fierezza, guidato ancora una volta da Steve.
E così come erano nato, il turbine di sabbia si spegne e lascia solo vuoto e rovine, ma non è ancora finito, poiché ben presto riprende forza porta il suo attacco finale verso il mondo che noi tutti conosciamo. Eccola, la fine arriva, silenziosa e mortifera, guidata dalle tastiere di Noah che disegnano quadri solitari di paesaggi brulli, un silenzio così profondo che neanche le urla finali di Steve riescono a spezzare, poiché grido che solo lui può sentire, nella sua mente.
Nine si può configurare nel trittico ingannevole interrotto con Shadow, rumore puro. Grave.
Ma il tempo per giocare è finito. La terza mossa è quella finale, quella vincente.
La prima inganna, la seconda disorienta, la terza…
No, nel loro caso non uccide, non rientrerebbe nella loro armonica visione del mondo.
Porta all’origine, quello sì.
Ed è così che la band si guarda dietro, in maniera dialettica, riconoscendosi in tutte le sue evoluzione, facendole proprie a un livello superiore, e vestendole per un ultimo viaggio in Origin.
Quì son presenti tutte le faccie del sound dei Neurosi, che ormai abbiamo imparato a conoscere.
E lascio che sia la musica a parlare, per la traccia forse migliore dell’album, e lascio che siano i versi a chiudere il pensiero sull’ennesimo capolavoro dei Neurosis :

“Le stelle acide hanno sfregiato la mia mente e mi hanno lasciato come un fantasma
Ruppi la mia maledizione e la diffusi attraverso la terra dove io vago guidato,
sporco e scuro il progetto guarda arcigno,
espulse, le cattive luci anonime mi tirano in un buco nero psichico e riflesso”


Neuros

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