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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Isis: Oceanic (2002)

domenica 2 novembre 2008

Isis: Oceanic (2002)



Etichetta:
Ipecac Recordings

Anno:
2002

Tracklist:
"The Beginning and the End"
"The Other"
"False Light"
"Carry"
"-"
"Maritime"
"Weight"
"From Sinking"
"Hym"

Line up:
Aaron Turner - guitar, vocals
Bryant Clifford Meyer - electronics, guitar
Jeff Caxide - bass
Michael Gallagher - guitar
Aaron Harris - drums

Era l’anno 1996 quando sulla scena pe(n)sante irruppe Through Silver In Blood, il lasciapassare dei Neurosis verso il gota della musica estrema. A Boston, ovvero sulla posta opposta ai sei di Oakland, alcuni amici rimasero talmente folgorati dal suddetto album da mettere su una band che ne ricalcasse le orme. Era il 1997 e le coordinate erano quelle neurosisiane e dello sludge più marcio.
Le liriche erano già qualcosa di profondissimo all’uscita dell’ep omonimo e Mosquito Control.
L’evoluzione era nel loro dna e crebbero, crebbero in maniera tale da sfornare dopo pochi mesi due capolavori assoluti come l’ep Sawblade e il primo full-length : Celestial. Questa band risponde al nome di Isis, e il suo leader maximo Aaron Turner, in seguito capo anche della straordinaria Hydrahead Recordings, è il genio che si cela dietro il concept del loro album di consacrazione, un album feroce e intimista, capace di commuovere e sbalordire, di spazzare via ogni dubbio su chi sia la band erede dei Neurosis : questo e oltre è Oceanic.
A parere di chi scrive questo è il punto di non ritorno dell’odierna scena post-hardcore/rock, capace di influenzare una quantità impressionante di band, e non stiamo parlando di sconosciuti, ma da annoverare ci sono gruppi del calibro di Cult Of Luna, Tides, The Other Side Of The Sky, Pelican.
L’esplosione mediatica della band è avvenuta con l’ultimo In The Absence Of Truth, album sicuramente straordinario, ma se ascoltato in parallelo con questo capolavoro, non regge il confronto. L’esplosione mediatica ha portato gli Isis alla ribalta, ma ha fatto perdere di vista il genio puro che si celava dietro due album imprescindibili come Oceanic, appunto, e il precedente Celestial, dove davvero è stata apportata una ventata di freschezza a un movimento che rischiava di inciampare nell’auto-contemplazione dei canoni neurosisiani.
Per prima cosa l’artwork, a opera dello stesso Aaron Turner, riporta alla luce il tema dell’acqua, affrontato in Red Sea e Celestial. Acqua come simbolo purificatore, ma acqua anche come punizione, dove annegare, dove perdersi, dove abbandonarsi all’oblio.
Il tema portante è quello dell’amore, amore (in parallelo con l’acqua) come salvezza e perdizione, in quanto si narrano le vicende di un uomo, che, sull’orlo del baratro, riesce a riavvicinarsi alla vita grazie all’incontro con la sua anima gemella, ma è un amore tormentato, poiché egli non sa che la donna amata, ha già da tempo un legame con suo fratello, e la disperazione sarà tale che...
...ma partiamo dall’inizio : The Beginning And The End.
L’inizio e la fine. Lì, in apertura di album. E Aaron Harris ad aprire le danze con un semplice intro di batteria, che da il la alle chitarre di Clifford e Gallagher, chitarre dal sapore rock, un rock inedito, quasi classicheggiante, ma che con il passare si trasforma, con un onda in balia del vento, e diventa un riff possente, sofferto, sul quale svetta la voce roca di Turner, E come l’onda arriva, sparisce, lasciando spazio ad andamenti circolari che faranno la fortuna delle band a venire. Arpeggi e riff sovrapposti, che si spengono e ricompaiono, come la luce di un faro e in lontananza, illuminata dal fascio, si staglia la figura di Maria Christopher dei 27, guest che incarna l’anima gemella, ed ecco che dolce e sensuale arriva l’abbraccio con il suo lui, un abbraccio amaro, perché in fondo, nasconde un sentimento di pietà, non d’amore, e le chitarre son lì a battere sul cuore di entrambi, pulsanti più che mai, quadrate, ossessive, illusione e sogno:

The water flies
Over his head
You are me now
As you lay on my bed
This is what he'd always known
The promise of something greater beyond the water's final horizon

E l’abbraccio si sciogie in un finale dove fanno capolino l’elettronica e i campionamenti, ma più fisici e meno eterei di quelli dei Neurosis, quasi trip-hop se vogliamo, poggianti sul post-rock più fluido e incisivo.
E The Other nuove chitarre ipnotiche ci portano all’interno della mente della donna, lei che sa, sa di sbagliare, di illudere con ogni sua parola o gesto, sa che il suo cuore è già impegnato, in un triangolo che odora già di disastro, poiché il sangue è lo stesso tra i due contendenti, fratelli. E le chitarre urlano, Aaron urla, come mille voci nella sua testa, che paiono provenire dalla sua coscienza, dall’innamorato, dal suo amato, ognuno che si scaglia contro il nulla, ognuno che in fondo sa che qualcosa non potrà andare per il verso giusto, poiché l’altro è l’inizio…della fine.
E in un finale epico ed evocativo, dove le vocals si fanno pulite e lontane, le urla cessano e si fa il largo il silenzio.
False Light ci riporta nuovamente nel cuore apparentemente ricucito dello spasimante, resuscitato dall’amore che pare quasi una tempesta, tempesta di emozioni, che lo porta all’abbandono totale, lo rende cieco, nient’altro è l’epilogo se abbagliati da una luce falsa. Una luce che abbaglia, violenta, come i riff del trio Turner, Clifford, Gallagher, che roboanti, ci portano trai i desideri più reconditi, quasi a lacerare gli strati di mente formatisi nel corso degli anni, e raggiunti, scopriamo una quiete ritrovata, dove il basso di Jeff fa da padrone, insieme alla batteria di Harris che leggera sovrasta gli altri strumenti, lasciando spazio solamente alle distorsioni lontane delle tre chitarre, sussurro di speranza nella quale perdersi:

Hold his hand and crush it
The depth of the charm is infinite
Discover bliss and serenity in drowning

E l’acqua è lì a vigilare su ogni cosa, silente e infinita, e i sussurri che si presentano alla fine della canzone, fanno da preludio a Carry. Distorsioni lontane e pochi accenni di batteria, rintocchi di piano, ecco, questo è il mare, un mare notturno e buio, sopra il quale si specchiano le stelle e la loro astrale luce, un mare dai ricami drone e ambiente, che si tramuta in sussurro di classe post-rock con piccoli riff elettrici che donano vita alla compsosizione, quasi come una leggere brezza che accarezza la superficie. Ma nelle profondità le correnti sono fortissime, sempre, è un’apparenza che inganna quella della superficie, poiché è sotto che tutto accade, una metafora che richiama il velo di Maya, e infatti i riff tornano a essere graffianti nel finale, maligni come la voce di Aaron.
I due minuti sintetici di sono esempio perfetto di questa illusione (influenza Neurosis), campionamenti marini che finiscono in loops noise e distorti.
Maritime invece è un sogno a occhi aperti, arpeggi soft e dolcissimi che si adagiano sopra delle keys delicate e d’atmosfera, un brano che riporta a galla sentimenti puri e positivi, un brano che in mezzo a tale intreccio lirico-musicale, pare essere uno scoglio riparato dove riposare in vista di tempeste future. E infatti arriva Weight che è una sentenza, un amarissimo spazio di quiete che esplode nel finale, fatto di poche parole, ma pesanti come macigni, prologo di una tragedia che ormai sembra essere vicina, di rivelazioni che stanno per arrivare e faranno male, che penetreranno nella carne e nell’anima, e a poco servono le vocals soavi di Maria e gli arpeggi del combo per smorzare l’atmosfera e ritmi tribali di Harris, non riescono a celare l’alone di catastrofe che arriva nel finale:

All in all in, all in a day
A day it changes everything

Ciò non toglie che il finale sia tra I più belli e toccanti del combo di Boston dove vengono ripresi gli arpeggi iniziali di False Light.
E proprio la vicinanza con la luce falsa permette al dolore di sovrastare ogni cosa in From Sinking.
La verità viene a galla, e lacrime salate lambiscono l’anima, come i riff che sono taglienti e abrasivi, scrostando via le recenti tracce di felicità, vernice fresca facile da portare via, e allora via, correre verso il mare rimane l’unica certezza, riavvicinandosi a un momento che pareva essere cancellato via, e invece eccolo, solenne e distorto come il basso di Jeff e la batteria di Harris, emozionante e drammatico, lento, meditato, gli arpeggi di chitarra sono lì per quello, per fare da contorno, per rendere il tutto meno struggente, come se fosse giusto, se fosse l’esito adatto a tutta la vicenda, e allora lui si avvicina alla riva e si immerge nell’acqua spegnendo ogni sua speranza tra le onde (riferimento all’Odissea):

Like liquid was the sadness
Until into the light he stepped
In this truth he knew himself to be
From sinking sands he stepped into lights embrace

E il roboante finale spegne le luci sulla violenza consumatasi, lasciando spazio al finale di Hym.
L’epilogo, un finale che era chiaro fin dall’inizio. Ed ecco allora che tutti gli assi di cui dispone la band vengono riposti per l’ultima volta sul banco : gli arpeggi dei tre chitarristi, le vocals sofferte di Aaron che fanno duetto con quelle pulite di Clifford, le loro chitarre che si fanno elettriche e mastodontiche, si rincorrono e si immergono nell’acqua, si fanno solenni, come la batteria di Harris, lenta e precisa e l’onnipresente basso di Caxide. Il finale è epico all’inverosimile, anticipando le ultime cose di Jesu e Vanessa Van Basten, in un caleidoscopio di suoni che scivolano via, guidati da poche e immortali parole, a chiusura di un album capolavoro, ineguagliabile:

Love flows fears no window minds time oceanic
Dissolve me
His own light, now it's gone
The thirst came on
And it came on in waves
He would dream of cells swollen with water
Blank memory washed away
Swallowed whole through eyes and teeth
Neuros

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