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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Neurosis - Times Of Grace

martedì 11 novembre 2008

Neurosis - Times Of Grace


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Anno: 1999 Label: Relapse Records

Tracklist:
1. "Suspended In Light" – 1:59
2. "The Doorway" – 7:35
3. "Under The Surface" – 8:37
4. "The Last You'll Know" – 9:14
5. "Belief" – 5:56
6. "Exist" – 1:41
7. "End Of The Harvest" – 7:29
8. "Descent" – 2:57
9. "Away" – 9:35
10. "Times of Grace" – 7:11
11. "The Road To Sovereignty" – 3:53

Line-Up:
Scott Kelly (guitars, vocals, percussions)
Steve Von Till (guitars, vocals, percussions)
Jason Roeder (drums, percussions)
Dave Edwardson (bass, voice, moog)
Noah Landis (keyboards, samples, tapes)
Pete Inc. (live visual media)

Esperienze.
Fanno tutta la differenza di questo mondo.
Chi non è capace di guardare oltre, relazionarsi con altre realtà, evolversi, è destinato a sparire.
Figli di un Dio minore, i Neurosis hanno fatto dell’evoluzione la loro arma principale, e pochi altri hanno saputo raggiungere l’aulicità del loro processo. Dopo esordi acerbi e di rabbia come Pain Of Mind e The Word As Law, dopo la Triade imprescindibile (Souls At Zero, Enemy Of The Sun, Through Silver In Blood) che li vide mutare pelle e incarnare un’essenza superiore, ecco che la strada vira nuovamente, verso nuove direzioni, delle quali neanche loro conoscono la metà, ma sanno che la porteranno lontano, dove l’argento di Through Silver In Blood si tramuta in polvere cosmica, un pulviscolo stellare che pervade l’animo, da sempre l’universo più angusto e insidioso che esista, un universo al quale non tutti possono accedere. Se non ti chiami Neurosis.
Evoluzione quindi, e da dove iniziare se non dalla cabina di regia? Billy Anderson fece un lavoro notevole dietro Enemy Of The Sun e Through Silver In Blood, ma la band era insaziabile e decise di affidarsi a un guru musicale delle scena alternative, una figura che stesse vicino al sound della band, qualcuno che spingesse oltre le loro visioni, qualcuno, come Steve Albini. L’album, registrato nei suoi Electrical audio recording di Chicago nell’ottobre del 1998, fu la prima collaborazione tra i due pesi massimi, un’alchimia viscerale e quieta, atta a curare ogni minima sfumatura, e i risultati che andremo ad analizzare, beh, li sentirete da voi, ma fidatevi se Steve fece pressione alla aband per poter produrre i successivi capolavori, e la band dal canto suo, non chiedeva altro.
A un ascoltatore distratto, il percorso intrapreso da quest’album potrebbe rappresentare un involuzione per la band : niente di più sbagliato. Non perdersi, in una musica che fa perdere di suo. Ecco il nuovo intento della band. Sarebbe stato controproducente imbastire un Through Silver In Blood part.2, una scelta che avrebbe portato la band all’autocompiacimento e la stasi artistica. Allora come procedere? Semplice : snellire il sound. Non lasciatevi ingannare, le composizioni sono sempre di una pesantezza asfissiante, ma meno stratificate, a favore di una pischedelia mirata e melliflua, coadiuvata sempre maggiormente da parentesi atmosferiche di nero respiro. Gli spigoli vengono smussati e il tutto diviene un tondo andamento di logorio nervoso. Se il precedente album, pareva innalzarsi al cielo, questo poggia saldamente sopra la terra che ogni giorno calpestiamo.
Si pesta la nuda terra, già dall’intro Suspended Light, un angolo di ambient e psichedelica, che si regge su keys, effetti e basso, con leggeri tocchi di percussioni a scandire il tempo, che lento, passa inesorabilmente, sopra le angosce del nostro tempo. Un tempo che nelle nostre mani trova rifugio e compimento, protetto dalla fisicità di The Doorway. La mano di Steve dietro la consolle si sente eccome, le chitarre sono più grezze, dal gusto “rurale”, ma non per questo meno graffianti, anzi, senza indugiare squarciano il velo di Maya che imprigiona la realtà, per mostrarci la via da seguire. La song incide come una lama sempre nello stesso punto, ora ritmata, ora lenta e sulfurea, mentre echi metallici in sottofondo rendono il tutto scarlatto e pregnante di zolfo. Nel finale un vortice di basso e percussioni ci riporta indietro a Enemy Of The Sun, quasi a voler ribadire le radici terrene dell’album, e in distorsioni roboanti, si chiude la song. Ma non c è un attimo di tregua perché riprendendo il finale della precedente, arriva una delle song (a parere del sottoscritto la migliore) più belle di tutte della storia dei Neurosis : la possente Under The Surface. E cosa si trova sotto la superficie? Fredda terra, richiami di defunti sepolti, e tanto, tanto dolore soppresso. La song scivola possente sopra il ritmo tribale di base, ma esplode in maniera secca e viscerale, con riff che faranno la futura fortuna dei Mastodon. Il suono di chitarra non è più glaciale e si distacca da quel mood industriale che aveva caratterizzato i lavori della Triade. Se dovessimo attribuire una colore a questo, sicuramente sarebbe una tonalità di marrone : a volta chiaro, quando batte la luce del sole, ma nella maggioranza dei casi, scuro, e dai riflessi rossi, quando le profondità della terra ne fanno da padrone.

“Your shell is hollow, so am I
the rest will follow, so will I

Si placa nuovamente e riprende vigore di lì a poco, decantando la propria frustrata speranza. Speranza resa vana dal sopraggiungere di The Last You’ll Know.
Magnificenza assoluta, imponenza sovrana. Strutturata in maniera semplice, ma sorretta dal duetto vocale Kelly-Von Till e dalle cornamuse di Landis, si tramuta in una lenta cavalcata epica, che fa viaggiare la mente per paesaggi lontani e brulli, dove i violini ricamano arabeschi autunnali, che portano a sentire la caduta delle foglie sopra le nostre teste, dimenticando l’inferno sonoro che accade in secondo piano. Ed ecco che un nuovo intermezzo ambient riporta la quiete, cullato da effetti stranianti, che vanno a formare l’impalcatura per la deflagrazione finale. Rumorista e maligna, pare uscita da un qualsiasi album di black metal grezzo.
Malignità che si fa angoscia in Belief. Un crescendo ipnotico che implode in se stesso, senza fare rumore, una danza psichedelica e minimale, dove è la voce di Steve a fare da padrona, poggiante sopra le tastiere di Noah, il basso di Dave e piccole schegge di chitarra da lui stesso lanciate, mentre Scott da man forte al lavori di Jason alle percussioni. Una litania di rassegnazione e auto-commiserazione che si protrae strisciante dentro di noi e solo negli ultimi secondi prende vigore, come a voler dimostrare che la rabbia non è sopita, ma viaggia silenziosa all’interno di noi.
Una piccola oasi di calma viene imbastita da Exist, dove i richiami al post-rock più cupo sono evidenti, poche note di solitudine ripetute senza tregua, che vanno a spegnersi su loro stesse creando un ponte con la successiva End Of The Harvest. Psichedelica e minimalista, non nasconde i richiami ai Pink Floyd dell’era Barrett e Waters, infondendo una sensazione di sciagura imminente. E infatti al solito arriva a schiaffeggiarci e svegliarsi dai nostri sonni, un turbine di sabbia che pervade i nostri polmoni e vuole soffocarci, come pare essere la voce strozzata di Dave, presente anche lui in questo frangente, che silenzioso si spegne nella quiete che band come Explosions In The Sky sa donare, ma questi ultimi non si avvicinano minimamente alla violenza sprigionata nel finale dal combo di Oakland. Una fiera che ringhia, digrignando i denti, come appare nell’artwork.
E Descent ci accoglie, sola e arrendevole, dopo tanto peregrinare, forte dei suoi forti toni celtici, che spalanca dinanzi a noi lande desolate e brulle, prati infiniti battuti dai freddi venti del nord, dove lo sguardo si perde, ed è lecito commuoversi.

“Cease this long, long rest
wake and risk a foul weakness to live
when it all comes down
watch the smoke and bury the past again
sit and think what will come
raise your fears and cast them all away”

E Away è la summa di tutto ciò.
Una baracca di legno, con un arredamento scarno, essenziale. Un tavolo spoglio dove appoggiare le proprie poche cose, e soprattutto una bottiglia di Scotch, da versare nel piccolo bicchiere, per stemperare la solitudine che regna in noi. Una sedia dove poggiare le proprie speranze future e farle riposare, in vista di tempi più bui, mentre lo sguardo si perde nel fumo della sigaretta, che aspirata delicatamente dona un senso di pace e tranquillità, mentre un fuoco acceso nel camino dietro di noi scalda il nostro corpo e la nostra anima, mentre fuori, imperversa la bufera. Sono le sensazioni che danno solo i dannati come Neil Young e Nick Cave, e i Neurosis le fanno loro, in una parentesi di nove minuti dove tutto è giocato su sussurrati arpeggi di chitarra e la calda voce di Steve, menestrello accogliente e dannato, che nel finale prova a dare sfogo alla sua rabbia, ma non riesce, poiché sfiancata da tanto errare.
Ed ecco la tempesta si placa e il viaggio ricomincia, più austero che mai, insidioso come solo i Neurosis sanno fare, con la title track : doom sepolcrale e martellante, vocalizzi beceri e pause ingannatrici, in un’altalena che colpisce come un pugno allo stomaco, ma imperterriti si va avanti, feriti e logorati soprattutto nella mente.
E dopo tanto viaggiare, esausti e sull’orlo di una crisi, ecco il sentiero tortuoso si apre in un’ansa di pace dove, alla base di un albero, si può definitivamente riposare, questa volta per davvero, cullati dalla calda melodia di The Road To Sovereignty. Si ricorda il viaggio, le fatiche, mentre il lontananza trombe e violini elevano il nostro spirito e ci perdiamo in un sonno profondo e ristoratore, mentre un piccolo sorriso nasce sul nostro volto. Rigenerati apriamo gli occhi e volgiamo lo sguardo al cielo, per ammirare, un sole che non sorgerà.
Così inizia il nuovo tragitto, e come il precedente non si sa dove porterà, ma di una cosa si è sicuri, che sarà in salita, come ormai ci hanno abituato i Neurosis.

Neuros

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